Quella malsana idea identitaria del capirsi. L’Alto Adige ha fatto scuola?

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Bolzano. La lingua è un fattore identitario, uno dei più importanti, oppure svolge la sua funzione principale nel permetterci di comunicare con gli altri? E’ una questione di autodeterminazione o di relazione?  Ovviamente una funzione non esclude l’altra, ma privilegiare il primo o il secondo aspetto, evidenzia due modi opposti di osservare il mondo.
Da questo punto di vista, l’Alto Adige/Sūdtirol è in grado di fornire spunti interessanti. Qui, la lingua è indubitabilmente una questione identitaria, lo è per legge.  Come noto, chiunque vi risieda deve decidere a quale gruppo linguistico appartenere e il sistema scolastico e culturale sono conseguenti. Non solo Natale o Pasqua, ma tutti i giorni solo e unicamente “con i tuoi”. Una scelta che in Alto Adige ha note e precise radici storiche, ma che può rivelarsi irrazionale e controproducente, soprattutto se nel frattempo il mondo si è globalizzato, se il vicino di casa è nato a qualche migliaio di chilometri di distanza e parla una lingua che non interessa. Qui, più che altrove, la relazione con chi viene da fuori si complica – lo dimostra, per esempio, la polemica sulle “classi ghetto” – ma il trend è osservabile ovunque.

La scuola pubblica che per decenni ha avuto il compito di formare cittadini nazionali attraverso una cultura omogenea, che ha diffuso una lingua nazionale al posto dei dialetti, oggi si mostra (o si finge?) disarmata di fronte a chi parla una lingua straniera e non un dialetto locale. Non si vogliono sottovalutare le differenze, ma nell’affrontare un problema più complesso che richiede maggiori risorse e impegno, non si risolve nulla scaricando il problema sulle famiglie degli studenti. L’attacco dell’Amministrazione Trump al ministero dell’Istruzione è solo il caso più eclatante – e meno ipocrita – delle tendenze in atto: l’importante è comunicare tra di noi, comprendere la lingua dell’altro non è importante.
Lo ha lucidamente sottolineato Stefano Bartezzaghi in una splendida intervista rilasciata a Simonetta Sciandivasci de “La Stampa”: “Purtroppo, domina un’idea identitaria del capirsi: se non ti capisco è perché sei diverso da me, e quindi non ci capiremo mai. Ed è abbastanza preoccupante”. Succede a Bolzano come a Roma e Washington.
Come precisa Bartezzaghi: “C’è il capire la lingua dell’altro, nel senso di idioma o tono, e c’è il capire nel senso di andare d’accordo. Io non confondo il discorso verbale con quello dei social, dove sembra che ci si capisca solo con quelli con cui si va d’accordo, finendo per non comunicare perché non ce n’è bisogno. Cosa abbiamo da dirci, a parte ‘passami l’acqua’, se la pensiamo nello stesso identico modo? Fuori dai social, invece esiste ancora la civiltà della conversazione, dove non è necessario essere d’accordo preventivamente per capirsi e allora può capitare una cosa massimamente affascinante: cambiare idea”. Nulla ci rende ignoranti come stare solo tra di noi

Massimiliano Boschi

 

 

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