La baby gang di Bolzano, viaggio nella rabbia multietnica di un disagio che non riusciamo a sentire (e a capire)
Quasi tutto quel che di importante e “speciale” accade in Alto Adige viene letto, spiegato e persino giustificato, con quanto avvenuto nel passato. Oggi come venti o trent’anni fa. Una “lettura” che può funzionare finché si discute di proporzionale etnica o di toponomastica, ma che oggi risulta fuorviante. E’ sufficiente camminare per le periferie del capoluogo o visitare Fortezza, Salorno o il Brennero per comprenderlo. Sarà fuori moda, ma per sostenere una tesi occorrono fatti, dati e circostanze. Per questo è nato AltoAdige.doc. Ecco la terza inchiesta, la prima riguardava l’ospedale di Bolzano, la seconda ci ha raccontato come leggere il passato a volte ci porti a capire meglio fenomeni (e loro pesi) attuali. La terza puntata è stato un viaggio… in Calabria, o meglio nell’enclave calabra (ma non solo) formata dai lavoratori del BBT. Operai che fanno un lavoro massacrante, lontani da casa. Perché costruire il futuro, ancor oggi, passa spesso attraverso sudore e sacrifici. La quarta, invece, è stato un viaggio nella toponomastica: probabilmente un falso problema, ecco perché. Ma il tunnel di base del Brennero, e il mondo che ci sta accanto, ha fatto molto parlare di sé. E noi ci siamo tornati per il quinto articolo.
Ci sono un un pachistano, un albanese, un marocchino, un altoatesino, un sudtirolese… Sembra l’inizio di una barzelletta, ma non lo è. Perché sono i protagonisti di una storia che non fa ridere per niente, quella degli appartenenti alla cosiddetta baby gang di Bolzano. Quella che ha occupato per mesi le pagine dei quotidiani altoatesini richiamando l’attenzione anche dei media nazionali oltre due anni fa. Erano quindici in totale, undici maschi e quattro femmine, tutti in età compresa tra gli 11 e i 16 anni. Uniti unicamente dalla rabbia, da quel che non avevano e, forse, da quel non riuscivano ad essere. Provenivano da quartieri diversi e da scuole differenti, non avevano origini etniche comuni e nemmeno indossavano simboli identificativi: nessun tatuaggio, nessun simbolo sul giubbotto, nessun nome evocativo.
Nulla a che fare con le bande giovanili o di motociclisti su cui sono stati girate decine di film negli anni passati e nemmeno con le attuali “gang” metropolitane unite dalle comuni radici etniche. In comune avevano le “segnalazioni” dei servizi sociali, la voglia di provocare, di menar le mani e di farsi notare. Hanno compiuto furti, rapine e aggressioni senza temere le conseguenze. Se ne parliamo qui è perché parlare dei giovani può risultare ancor più difficile che parlare con i giovani. Troppi cliché, troppi luoghi comuni, troppi “ai miei tempi era diverso”. Se non ci si occupa di loro, però, è difficile comprendere quale futuro attendersi. Per sgombrare il campo da ogni equivoco, nessuno pensa che i giovani di oggi siano tutti potenzialmente dei criminali, anzi. Ma i bambini e i ragazzi di questa baby gang hanno “urlato” così chiaramente il loro disagio e la mancanza di una qualunque speranza che non si possono non ascoltare. Provare a comprenderli può aiutarci a definire meglio una società che non può essere solo “post” qualcos’altro e che non può più essere definita solo per quel che non è più.
Per raggiungere l’obiettivo, ho chiesto alla persona che li ha studiati e “frequentati” più di chiunque altro: la procuratrice capo del tribunale dei minori di Bolzano, Antonella Fava.
La incontro nel suo ufficio di Corso Libertà e provo a spiegare perché mi trovo lì, finendo, probabilmente, per aumentare la sua perplessità invece di diminuirla. Ma la storia della baby gang sembra averla colpita particolarmente, tanto da silenziare gli eventuali dubbi: «Era la mia prima inchiesta di questo tipo. Avevamo aperto una trentina di fascicoli penali e come ufficio abbiamo cercato innanzitutto di comprendere cosa stava succedendo. Abbiamo contattato i servizi sociali, le scuole e il forum prevenzione. Di conseguenza, l’identificazione degli appartenenti è stata veloce ma non semplice. Ho dovuto, per esempio, spingere molto sulle foto segnalazioni perché trattandosi di ragazzini, erano raffigurati sui documenti con fotografie di quando erano molto più giovani con connotati molto diversi».
Come noto, tutti coloro che hanno avuto a che fare con il caso sono rimasti colpiti dalla grande sfrontatezza degli appartenenti a questa giovane banda: «Non provavano nemmeno a nascondere la propria rabbia in presenza delle forze dell’ordine, anzi, sembrava esaltarli. L’episodio più eclatante è avvenuto quando sono stati fermati da quattro volanti della polizia sotto gli occhi di numerosi cittadini. Nell’occasione hanno approfittato del “pubblico” e della loro giovane età per provocare la polizia, si sono rotolati sul cofano delle auto di servizio, hanno insultato e sputato agli agenti invitandoli a usare le maniere forti perché tanto avrebbero filmato tutto. Per evitare problemi i poliziotti hanno saggiamente deciso di andarsene».
E’, però, uno dei primi reati compiuti dalla “gang” a aiutarci a comprendere meglio il contesto. «Hanno rubato delle coperte in pile per passare la notte nelle casette da giardino ospitate fuori da un noto negozio di edilizia, bricolage e giardinaggio. Alcuni erano già scappati da casa e da situazioni famigliari complicate e sembravano voler ricreare una sorta di nuova famiglia con gli appartenenti al gruppo».
La difficile situazione familiare era infatti pressoché comune a tutti gli appartenenti: «Premetto che i reati più gravi erano appannaggio solo di alcuni del gruppo, soprattutto quelli violenti in cui erano stati utilizzati coltelli e, in un caso, una pistola scacciacani. Ricordo anche, che oltre la metà aveva meno di quattordici anni e quindi non si poteva procedere con l’azione penale. Detto questo, molti dei casi più difficili provenivano da famiglie in cui il padre era assente o, in un caso, si limitava ad essere una sorta di bancomat per il figlio. Dire che erano molto uniti è poco. Si sorreggevano e esaltavano a vicenda e hanno continuato a farlo anche durante i processi. Avevamo deciso di considerarli come singoli, di stralciare le singole posizioni per spezzare il legame che li spingeva a aumentare il livello dello scontro, ma sono riusciti comunque a tenersi in contatto, anche lasciandosi messaggi negli ascensori del tribunale durante le udienze».
Una delle altre notizie sorprendenti riguarda il loro modo di comunicare. «Solo un paio di ragazzi era in possesso del telefono cellulare ma tutti conoscevano i numeri di telefono a memoria e comunicavano attraverso i telefono fissi o i cellulari di amici e parenti. Si erano conosciuti in alcuni centri giovanili e lì si davano appuntamento». Ma come tutte le famiglie, non hanno sentito la necessità di presentarsi all’esterno con un marchio: «E’ vero, hanno incominciato a sviluppare un’identità collettiva solo dopo che i quotidiani hanno descritto le loro imprese definendoli baby gang. Questo ha cambiato l’approccio e hanno iniziato a lasciare biglietti rivendicativi nei luoghi dei furti».
Di conseguenza, per riuscire a smembrare il gruppo sono serviti mesi di indagini e di pratiche che mischiavano l’azione penale con quella “sociale”: «Per alcuni ragazzi l’azione penale non era possibile, abbiamo contattato i genitori e collaborato con le comunità in cui li abbiamo confinati. E’ stata un’attività complessa ma utile che ha stimolato molte riflessioni».
Proprio quelle per cui ci troviamo in questo ufficio. Non aspettavamo di meglio: «Intanto premetto che sono contraria, come quasi tutti i magistrati che si occupano di minori, all’abbassamento dell’età dell’imputabilità dei minori. Non è questa la risposta giusta. I risultati li abbiamo ottenuti cercando le soluzioni più adatte al caso specifico. Devo, però, ammettere che mentre il carcere per adulti sembra non permettere nessun recupero del detenuto, quello minorile, in casi specifici e per tempi ridotti può ottenere qualche risultato. Se tutte le altre strade hanno fallito, una breve detenzione può aiutare a far riflettere il minore che spesso apre gli occhi e preferisce tornare in comunità cambiando atteggiamento».
Si tratta, naturalmente, di numeri molto piccoli, anche perché tutti sanno che se un dodicenne si trasforma in criminale non è certo perché le pene non sono sufficientemente severe: «Sembrerò banale, ma molto dipende dalla famiglia. Nel bene e nel male l’istituzione famigliare è molto cambiata, molti genitori sembrano tenuti in scacco dai figli, dire di sì sembra molto più facile che dire di no. In alcuni casi, è saltata la solidarietà tra genitori e scuola nell’educazione dei ragazzi e i professori si ritrovano a confrontarsi con padri e madri che difendono i loro figli a prescindere».
Per chiudere, c’è un aspetto che sembra spiegare meglio di ogni altro la realtà di oggi e la percezione di quel che ci circonda. E passa attraverso un ricordo personale della procuratrice Fava: «A partire dai sei anni, sono sempre andata a scuola da sola e per farlo dovevo attraversare piazza Vittoria che dal punto di vista del traffico e degli attraversamenti pedonali era molto meno sicura di oggi. Nonostante questo, i miei genitori non si preoccupavano e mi lasciavano andare. Oggi è difficile che qualcuno lasci andare i figli a scuola da soli sotto gli undici anni. I dati ci mostrano che oggi i reati sono in diminuzione, le rapine in banca e gli omicidi sono molto più rari, il terrorismo nazionale e locale non fa più vittime, eppure tutti si sentono più insicuri. Forse tutto questo è dovuto al cambiamento dei reati, sono diminuite le guide in stato di ebrezza ma sono aumentati gli scippi. Probabilmente è questo a far sentire i cittadini più esposti alla criminalità».
Forse, ma lo sguardo della procuratrice mostra che anche lei non ne è convintissima.
Massimiliano Boschi