Trilogia delle disavventure di K., cittadino italiano che gli Usa non vogliono
Quasi tutto quel che di importante e “speciale” accade in Alto Adige viene letto, spiegato e persino giustificato, con quanto avvenuto nel passato. Oggi come venti o trent’anni fa. Una “lettura” che può funzionare finché si discute di proporzionale etnica o di toponomastica, ma che oggi risulta fuorviante. E’ sufficiente camminare per le periferie del capoluogo o visitare Fortezza, Salorno o il Brennero per comprenderlo. Sarà fuori moda, ma per sostenere una tesi occorrono fatti, dati e circostanze. Per questo è nato AltoAdige.doc. Ecco la terza inchiesta, la prima riguardava l’ospedale di Bolzano, la seconda ci ha raccontato come leggere il passato a volte ci porti a capire meglio fenomeni (e loro pesi) attuali. La terza puntata è stato un viaggio… in Calabria, o meglio nell’enclave calabra (ma non solo) formata dai lavoratori del BBT. Operai che fanno un lavoro massacrante, lontani da casa. Perché costruire il futuro, ancor oggi, passa spesso attraverso sudore e sacrifici. La quarta, invece, è stato un viaggio nella toponomastica: probabilmente un falso problema, ecco perché. Ma il tunnel di base del Brennero, e il mondo che ci sta accanto, ha fatto molto parlare di sé. E noi ci siamo tornati per il quinto articolo. Mentre abbiamo cambiato argomento per l’ultimo nostro approfondimento: un’intervista alla procuratrice capo del Tribunale dei Minori di Bolzano. Per capire, o meglio cercare di farlo, le vere radici di fenomeni di violenza giovanile.
In questi giorni il dibattito sulla concessione della cittadinanza italiana è tornato ad accendersi. La maggioranza, non solo di governo, pretende che venga concessa con grande parsimonia e solo a chi rispetta la legge e le più elementari norme del vivere civile. Si potrebbe fare della facile ironia su un’italianità basata sul rispetto della legge, ma “da statuto”, qui si preferisce alzare lo sguardo e aprire prospettive diverse su quel che ci circonda. Proprio per questo vi raccontiamo la storia di K., un “nuovo” cittadino italiano, nato in Iran e residente a Bolzano. K. questa l’iniziale del cognome, non è un agrimensore e nemmeno un impiegato di un istituto bancario, ma, per ironia della sorte, il suo lavoro consiste proprio nel controllare che gli altri rispettino alcune precise regole. Non è armato e nemmeno è costretto ad alzare la voce, quasi sempre gli basta avvicinarsi a qualcuno con fare cortese per ottenere comportamenti consoni.
E’ anche un pluripremiato artista, ma ultimamente, quei premi non può più andare a ritirarli ed è costretto ad osservare le premiazioni in diretta streaming. Questo per colpa di norme complesse e misteriose sezioni ministeriali che creano meccanismi burocratici inesorabili, basati su logiche autoreferenziali contro cui la razionalità e il buon senso possono pochissimo. Nel suo caso nulla. Anche per questo abbiamo preferito omettere nome e cognome. Incontro K. in un bar non lontano dal suo luogo di lavoro. Non appena seduto, apre la sua elegante borsa e tira fuori un nutrito mazzo di documenti, ordina una sportwasser, ma inizierà a berla solo al termine dell’intervista.
Prima di iniziare, ci tiene a precisare una questione per lui fondamentale: «Il giornalista sei tu e non voglio dirti cosa scrivere, ma se ti racconto la mia storia è perché non sono un caso isolato. Il mondo è diviso in cittadini di prima, seconda e terza classe e quelli che vivono in prima classe spesso faticano a comprendere come vivono quelli delle classi inferiori. Io sono nato in Iran e per me è sempre stato difficile viaggiare, ho sempre dovuto programmare gli spostamenti con mesi di anticipo, prendendo appuntamenti con ambasciate e consolati, compilando montagne di documenti e rispondendo a decine di domande sui questionari o durante degli interrogatori. E’ complicato per tutti ma oggi, se si è uomini single di sesso maschile, lo è ancora di più. Devi dimostrare di essere benestante e di non essere un criminale. A quanto pare, è molto più facile mostrare la prima condizione». L’altra fondamentale premessa è questa: K. ha lasciato il suo paese perché contrario alle politiche della Repubblica Islamica. Per questo è fuggito dall’Iran ed è arrivato in Italia negli ultimi mesi del 2004: «Sono rimasto in attesa dell’asilo politico per un paio di anni, poi, nel 2007, l’ho ottenuto insieme a un documento di viaggio che mi permetteva di uscire dai confini italiani».
Me ne mostra una fotocopia: è in due lingue, italiano e francese e la copertina recita: «Documento di viaggio – Titre de voyage. Convenzione del 28 luglio 1951». Tutto il testo italiano è tradotto in francese, il motivo rimane sconosciuto a me e a lui, valutiamo alcune ipotesi ma poi torniamo alle questioni concrete. «Il fatto di essere scritto in italiano e in francese e, non in inglese, mi ha causato, come è facile comprendere, una serie di problemi. Spesso ho avuto la possibilità di recarmi negli Stati Uniti per mostre o residenze d’artista e, ovviamente, i funzionari e egli agenti alla frontiera non capivano una sola parola di quel che vi era scritto. Problema che mi si presentava anche solo quando andavo a Innsbruck o a Monaco e persino, nonostante la lingua, in Francia. Una volta un intero bus è stato dirottato alla più vicina stazione di polizia solo per permettere una migliore identificazione del mio documento». Le straordinarie particolarità di questo documento di viaggio non si esauriscono nella scelta della lingue. K. mi indica le più evidenti. «Essendo un documento per i richiedenti asilo, viene riconosciuto in tutti i paesi escluso quello di nascita, ma, come vedi, il funzionario aveva scritto Iraq e non Iran, quindi ha corretto, a penna, la Q con la N. Ha fatto la stessa correzione anche nell’indicazione del luogo di nascita».
Ora, non è difficile immaginare la reazione degli agenti di controllo della frontiera statunitense di fronte a un documento di viaggio scritto in lingue che non conosce e con la scritta Iraq modificata, a penna, in Iran…. «Ho provato a far presente la questione alle autorità italiane ma è stato inutile. Per fortuna per andare negli Stati Uniti, o in Australia dove risiede mio fratello, è richiesto il visto per cui potevo chiarire ogni dubbio in sede di colloquio. Gli agenti, per fortuna, mi lasciavano passare grazie al Visto, anche se ogni volta dovevo spiegare tutto. Non era una questione che potevo risolvere rapidamente né facilmente».
La pagina più “divertente” dell’intero documento risulta, però, quella dei connotati in cui sono indicati altezza, capelli, colore degli occhi, segni particolari etc…. «Come puoi vedere, hanno scritto dappertutto vedi foto. Premesso che nelle foto tessere tutti sembriamo molto diversi, lo hanno indicato anche per l’altezza. Insomma, non sembravo preoccuparli troppo. Poi, però, tutto è cambiato».
Inevitabilmente, si finisce per sorridere nel riconoscere una delle più tipiche caratteristiche dell’italianità, la soffocante burocrazia che finisce in farsa, ma per K, questo mix di procedure e imprecisioni recava un danno economico non irrilevante. «Mi è capitato di dover rinunciare a viaggi per cui avevo già pagato biglietti e prenotazioni, rimettendoci tutte le spese, senza contare i continui viaggi al consolato di Milano e l‘impossibilità a programmare con precisione la partenza. Acquistare biglietti a prezzi contenuti era praticamente impossibile». Nonostante tutto questo, K. è riuscito ad entrare negli Stati Uniti nel 2010, nel 2014 e nel 2015. «In quegli anni solo il Canada, nel 2012, mi aveva rifiutato il Visto nonostante fossi stato invitato per una conferenza. I problemi per entrare negli Usa sono iniziati solo nel 2016».
Nuovo capitolo della storia, nuovo fascicolo. K. mi mostra un documento di sette pagine del Consolato degli Stati Uniti di Milano pieno di domande sui motivi del suo viaggio, sulla biografia personale e sui viaggi precedenti, nonché le lettere di invito che aveva ricevuto da due importanti istituzioni artistiche di Pittsburgh e Portland. «Nonostante le lettere di invito e nonostante le mie risposte fossero complete e precise, ho capito che era cambiata l’aria. Ho portato tutta la documentazione richiesta al consolato statunitense di Milano nell’autunno del 2016, Trump non era ancora stato eletto, ma le domande del personale erano cambiate. Non erano più interessati al motivo del viaggio, né al mio curriculum artistico, era un interrogatorio sul mio passato. Mi vedevano solo come un iraniano e, quindi, come una persona sospetta».
Successivamente al colloquio, il consolato gli ha consegnato una lettera in cui si precisava che prima della concessione del Visto occorreva una ulteriore procedura amministrativa ai sensi della sezione 221(G). «Una sigla che non mi diceva nulla, ma che ora so che è definita il buco nero perché raccoglie richieste che devono essere analizzate dalla National Security Agency o dall’Fbi. Sezione da cui è difficilissimo ottenere una risposta positiva».Nell’attesa, mentre ormai l’invito per le premiazioni era abbondantemente scaduto, K. è diventato ufficialmente un cittadino italiano.
«Ho il passaporto dall’ottobre 2017 e pensavo di aver risolto molti problemi. Il 2 gennaio 2018, invece, mi è giunta la risposta dal Dipartimento di Stato statunitense in cui mi si precisava che ero stato ritenuto Non qualificato a ricevere un Visto non immigrante ai sensi dell’articolo 212(f) della legge Americana sull’Immigrazione e Nazionalità in conseguenza del Proclama Presidenziale 9645. Mi si informa altresì che non ho dimostrato che il mio ingresso non ponga una minaccia alla sicurezza nazionale o pubblica e/o che il suo ingresso sia nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. La decisione è inappellabile, ma come faccio a dimostrare che non sono una minaccia per gli Usa? Non ho precedenti penali e i miei viaggi testimoniano che non ho mai creato problemi. Credere che il mio ingresso negli Usa sia negli interessi della nazione che mi ospiterà per qualche giorno mi sembra altrettanto esagerato».
Il 9645 è il famoso “Trump Travel Ban” che ha negato l’ingresso ai cittadini di sei paesi a maggioranza mussulmana tra cui l’Iran. Grazie a questo divieto, K. neocittadino italiano, già oppositore del regime iraniano, non potrà più entrare negli Stati Uniti, almeno fino a quando Trump resterà in carica. «Essere diventato italiano non è servito a nulla, qualcuno mi ha consigliato di riprovare ma al momento non ne ho proprio voglia. E’ evidente che le regole sono truccate, che si decide in base al luogo di nascita (che non ho scelto) e non in base alla propria condotta di vita. Io sono sempre la stessa persona, prima ero trattato da artista ospite, ora da criminale. Perché? Se lo si diventa in base al luogo di nascita a che serve rispettare le regole? Al di là del mio caso personale, credo che sia una legge stupida anche per gli interessi statunitensi».
Per fortuna il mondo è grande e grazie al nuovo passaporto italiano, K. ha potuto recarsi in Nuova Zelanda, Canada e Australia. «Finalmente ho smesso di partecipare alle costose lotterie per la concessione del Visto e, Stati Uniti a parte, viaggio come voi italiani. Voi ci siete abituati, ma io no». Quel “voi italiani” gli sfugge dalla bocca senza volontarietà, ma nota la mia reazione: «Scusami, io vorrei sentirmi italiano, ma non dipende da me. Ho subito troppe decisioni assurde, per troppi il luogo di nascita è molto più importante dei comportamenti e delle azioni compiute. Poi ho i tratti tipici di uno straniero, ne ho l’apparenza e anche in Alto Adige vengo trattato come tale».
Massimiliano Boschi