Intervista a Kompatscher: «Calma e adrenalina, i miei tre mesi più difficili»
L’idea iniziale era quella di confrontarci con il Presidente della Provincia Arno Kompatscher sui principali temi emersi in un anno di viaggio di Alto Adige Doc, ma il Covid 19 e le sue conseguenze hanno imposto altre priorità. La domanda imprescindibile è diventata un’altra: come si affronta anche dal punto di vista personale, un’emergenza imprevedibile, incerta e che tocca direttamente la sopravvivenza delle persone, quella fisica e quella economica. Intanto, il viaggio di Alto Adige Doc è pronto a ripartire con qualche aggiustamento provando a non farsi condizionare troppo da mascherine e distanze di sicurezza.
Da tre mesi a questa parte, si è ritrovato a gestire una situazione imprevedibile, un evento “storico” inatteso e ancora pieno di incertezza, una crisi sanitaria ed economica che rende le scelte ancora più difficili perché ogni errore può costare caro. Come sta affrontando tutto questo anche dal punto di vista personale?
«Innanzitutto, va da sé che una situazione di questo genere porti a sentire in particolar modo la responsabilità sulle spalle, che diventa un peso soprattutto nei momenti in cui bisogna prendere decisioni in breve tempo e, soprattutto, non avendo a disposizione tutte le informazioni utili a fare scelte pienamente consapevoli. In effetti, soprattutto all’inizio della crisi, tutti noi decisori politici abbiamo navigato a vista, che è la situazione peggiore in cui ci si possa trovare. Si ha infatti la consapevolezza che già solo qualche settimana più tardi, con il senno di poi, chiunque potrà giudicare gli errori delle decisioni prese. In questa situazione di incertezza, dove anche gli esperti potevano solo formulare delle ipotesi, essere nell’occhio del ciclone richiede soprattutto calma: calma nel prendere le decisioni, ma anche calma – e forse questa è la parte più complicata – da trasmettere alla cittadinanza, pure quando si ha il cuore in gola. Dimostrare la propria consapevolezza e la presenza di una chiara strategia, in una situazione del genere, è necessario per infondere fiducia ai cittadini. Non è quindi stato semplice, per fortuna però in queste situazioni entra in gioco l’adrenalina, che permette di affrontare e reggere anche questo genere di sfide».
Anche se non si vede l’ora di chiudere con le ansie del passato, è evidente che le fasi 2 e 3 dipenderanno ancora molto da fondamentali questioni della fase 1: un aumento deciso dei posti in terapia intensiva e un’enorme disponibilità di tamponi. Cosa può dirci da questo punto di vista?
«La fase 1 era caratterizzata dalla sfida di garantire che il sistema sanitario avrebbe retto all’urto del contagio, e che sarebbe stato possibile mettere a disposizione abbastanza posti letto in terapia intensiva, nonché i ventilatori per intubare i pazienti più critici e il personale sanitario sufficienti ad assistere i numerosi pazienti che ne avessero necessità. Per fortuna i numeri ci dicono che questa fase è per fortuna ormai stata superata: dai 65 pazienti in terapia intensiva della fase più critica, siamo passati ora a 4. Adesso il tema diventa quello di abituarsi al fatto che per un periodo dovremo convivere con il virus. È sbagliata, infatti, l’idea che lo Stato, le Regioni, la nostra Provincia Autonoma, possano garantire l’assenza di un pericolo di contagio: ciò sicuramente non avverrà prima dell’introduzione di un vaccino. Anche un lockdown infinito, infatti, non potrebbe darci questa garanzia. Da questo approccio, secondo me sbagliato, è nato l’attrito politico delle scorse settimane. Quello che viviamo al momento è invece il periodo in cui bisogna responsabilizzare i cittadini, rendendoli pienamente consapevoli che questo virus, che può essere letale, è ancora in circolo e che un rischio di contagio c’è. È quindi responsabilità di ciascuno di noi proteggere se stesso e gli altri, comportandosi in modo adeguato e consapevole. La mano pubblica, in questo senso, è responsabile di fornire informazioni utili e corrette ai cittadini e di mettere a disposizione un contesto che permetta loro di proteggersi, attraverso regole per i vari contesti di vita e la disponibilità di dispositivi di protezione, cosa che non era purtroppo possibile all’inizio dell’emergenza, ma che stiamo ora organizzando. Sul fronte della sanità, invece, credo che le conoscenze e il livello organizzativo fin qui acquisiti possano rispondere prontamente a eventuali aumenti del tasso di contagio. Tutto ciò definisce, in effetti, la cosiddetta fase 2».
Pur considerando le enormi difficoltà e l’imprevedibilità di quanto avvenuto. C’è qualcosa della fase uno che farebbe diversamente? Per esempio rispetto al ritardo con cui si è partiti con i tamponi e la decisione della Germania di considerare l’Alto Adige “zona rossa”.
«Per quanto riguarda la decisione del Germania di considerare l’Alto Adige “zona rossa”, credo di poter dire che la mia reazione sia stata corretta. Ho subito preso sul serio la valutazione di tale autorevole istituto di ricerca germanico, che ho subito contattato per avere maggiori informazioni in merito. Sulla base delle stesse, ho provveduto in tempi brevi alla completa chiusura dei nostri comprensori sciistici. In questo senso, voglio sottolineare la piena sintonia, su questa decisione, con gli operatori turistici, cosa più unica che rara a livello nazionale ed europeo. Per quanto riguarda invece i tamponi effettuati e il ritardo percepito in questo senso, posso dire che si è trattato soprattutto di un errore comunicativo. Nelle primissime fasi dell’emergenza, infatti, c’è stato un notevole ritardo nella comunicazione dei tamponi effettuati alla protezione civile nazionale, che si occupa di pubblicare il dato, ufficializzandolo. È sembrato perciò che siamo partiti in ritardo con l’effettuazione di tamponi. Oggi, però, sono soddisfatto nel dire che siamo tra i territori che hanno effettuato più tamponi pro capite a livello nazionale. Con questo non voglio dire che siamo infallibili e che non abbiamo commesso errori. Sicuramente, col senno di poi, gestirei la comunicazione in modo differente, soprattutto quella delle primissime fasi dell’emergenza. Bisognava rendere da subito consapevoli i cittadini che il problema riguardava tutta la società e non solo la politica o determinate categorie economiche e sociali. Avremmo dovuto far da subito capire che saremmo stati tutti coinvolti e sarei dovuto essere più insistente nel trasmettere il messaggio che la politica può arrivare solo fino a un certo punto, ma la vera differenza la fa la responsabilità dei cittadini».
Molti descrivono l’Alto Adige come un’isola (felice), io lo vedo più come un arcipelago, perché Valle Isarco e Val Badia sono molto diverse, San Candido ha orizzonti diversi da Malles e ovviamente, Bolzano non è Brunico. Il viaggio di Alto Adige Doc mi ha spinto ad analizzare con particolare attenzione l’Alta Valle Isarco. da Bressanone in su. Essenzialmente perché credo che lì si giochi la sfida tra l’Alto Adige terra di frontiera e terra di turismo. Bressanone è riuscita negli ultimi tempi a migliorare la propria immagine e lo lo sviluppo economico è tra i più interessanti. Questo, però, non sembra coinvolgere la zona a nord fino al Brennero che spesso si sente abbandonata e il BBT non migliorerà la situazione….Quali progetti ha (avete) in mente rispetto a questo territorio che è la porta principale dell’Alto Adige verso l’Europa?
«Non bisogna dimenticare che il Brennero e l’area più prossima al confine italo-austriaco per decenni ha vissuto – da un punto di vista economico – dell’indotto generato da questo confine, che era un confine chiuso e che portava in dote tante attività economiche, sia nel settore privato che in quello pubblico. Un luogo fatto di dogane ed esercito, ma anche di cambiavalute, trasporti e altri uffici dell’apparato burocratico. L’accordo di Schengen, in questo senso, ha significato un cambiamento radicale per il territorio, che – eccezion fatta per il comparto agricolo – ha dovuto reinventarsi. Grande è stato lo sviluppo turistico in molte aree, non solo legate a Bressanone: penso a Vipiteno e a Racines, ad esempio. Il Brennero, più specificatamente, andrà valorizzato, oltre che per le sue possibilità legate allo shopping, per la sua valenza storica e culturale: stiamo già elaborando alcuni progetti a questo proposito, con il Comune e nell’ambito dell’Euregio. Fortezza è invece custode del decimo museo provinciale e lì vorremmo esporre la nostra idea di questa provincia quale zona di confine, luogo di transito e di incontro, nei suoi vari aspetti che si sono susseguiti nel corso dei secoli: dalla strada romana, agli imperatori del sacro romano impero e ai commerci medievali, fino alle più recenti problematiche, legate ai trasporti e alle migrazioni. Il tutto sottolineando come la nostra autonomia sia un’interpretazione nuova della valenza di questa zona, che da confine, riesce a diventare ponte. E quest’ultima, potrebbe essere proprio la risposta alla sua domanda: la valorizzazione può passare dalla storia, sofferta ma ricca e gloriosa, di questa terra di transito e di confine».
Un anno di viaggio di Alto Adige Doc aveva evidenziato due questioni principali su cui, probabilmente, si sarebbe giocato il futuro della provincia: la gestione dei flussi turistici e le problematiche legate all’essere una zona di “frontiera”, molto più della “questione etnica”. Il mix di queste due cose avrebbe deciso il futuro di questa provincia. Il Covid 19 non ha cancellato queste problematiche, anzi, ma ha limitato le visioni del futuro per accontentarsi della sopravvivenza, almeno per il momento. Lei come si immagina l’Alto Adige del 2022?
«A leggere i saggi dei futurologi, trovo forse che siano troppo ottimisti nel dire che usciremo migliori da questa crisi, più consapevoli del valore della libertà, della qualità della vita di cui godiamo in questo bellissimo territorio o anche del valore della comunità e della solidarietà reciproca. In queste settimane è venuto a galla quello che Albert Camus aveva già splendidamente espresso nel suo romanzo La Peste: nei momenti di crisi si enfatizzano i lati positivi o negativi di ciascuno. Io sono però una persona ottimista e spero che un domani non dimenticheremo in fretta quello che abbiamo passato (sperando di uscirne bene) e riusciremo ad apprezzare quello che ci dona la vita nella sua normalità. Temo, però, che torneremo presto alle solite divisioni, alle vecchie logiche, alle invidie, perché pare che l’uomo, in definitiva, sia fatto così».
Massimiliano Boschi