“Per una diversa cognizione del mondo”. Le fotografie di Fabio Bucciarelli al Trevi di Bolzano
Il Centro Trevi di Bolzano ospiterà fino al prossimo 3 dicembre “The Border Wall” mostra di fotografie di Fabio Bucciarelli che descrivono il dramma vissuto dai migranti che tentano di superare il muro di frontiera tra Messico e Stati Uniti. Un’esposizione che comprende anche il progetto “American Chimera”, fotografie e video sulla vita di una famiglia di immigrati che è riuscita ad entrare negli Usa e che ora cerca di inserirsi nella società statunitense.
Una mostra curata dal Circolo Fotografico Tina Modotti di Bolzano che tra i vari meriti ha quello di proporre le straordinarie immagini di uno dei più noti e premiati fotografi italiani.
Vincitore del Robert Capa Gold Medal e del World Press Photo, in un decennio di carriera, Bucciarelli ha descritto il conflitto libico fino alla morte di Gheddafi, la battaglia di Aleppo in Siria e più di recente, ha raccontato al mondo quel che accadeva nella primavera del 2020 all’interno dell’ospedale di Bergamo a causa della pandemia in uno straordinario reportage per il New York Times.
Luoghi e mondi diversi che Bucciarelli ha attraversato lungo un fil rouge che ha voluto sottolineare sin dall’inizio dell’intervista: “Prediligo il messaggio informativo al discorso estetico, mi interessa creare una cognizione del mondo attraverso immagini che scatenino un dibattito. Ho iniziato a farlo in Medio Oriente poi in Africa e in Ucraina, le fotografie ospitate al Trevi, invece, illustrano il mio lavoro sulla migrazione in Sud America, un continente che ho raccontato anche attraverso le lotte popolari in Cile contro le politiche neo liberiste e gli incendi nella Foresta amazzonica.
Il titolo della mostra ospitata al Trevi è emblematico: “The border wall”: il muro di confine
La mostra di Bolzano ospita immagini scattate nel 2018 e fa parte di un percorso che si concentra sui diritti umani e i muri rappresentano una evidente negazione di questi diritti perché la ricerca di una vita migliore è un diritto inalienabile delle persone. Ho visitato molte zone di confine e molti muri hanno le loro fondamenta sulla paura, sulla creazione ad arte di un nemico, figli di una politica miope. Credo che le mie foto lo dimostrino, ma, ripeto, mi interessa il messaggio.
Un percorso non scontato per un laureato in ingegneria delle telecomunicazioni.
Sì, dopo la laurea in Ingegneria a Torino, ho vinto un master a Barcellona, ma una volta lì ho deciso di dedicarmi alla fotografia. Da anni mi interrogavo sul percorso che avevo intrapreso e quel viaggio si è trasformato nello switch necessario a cambiare radicalmente. Un cambio che non rimpiango, sono felice delle mie scelte. Ho iniziato nel 2009 come fotografo di agenzia e ho imparato il mestiere, dopo due anni, però, ho deciso di abbandonare anche quella strada per dedicarmi al fotogiornalismo e a temi di interesse internazionale.
Più facile a dirsi che a farsi, come dimostra la creazione della cooperativa di free lance.
“Sì, il lavoro di fotogiornalista è molto complicato, per questo ho fondato quella cooperativa che, però ho dovuto chiudere. Ma questo non ha cambiato il mio approccio, continuo a preferire lavori che richiedono approfondimento e quindi tempo, non sono per il mordi e fuggi. E’ una maratona, non una corsa sui cento metri, so dall’inizio che dovrò affrontare momenti difficili, ma conto sulla forza di sapermi rialzare dopo una caduta.
Il Covid ha ovviamente penalizzato fortemente il lavoro dei fotogiornalisti, soprattutto per chi lo affronta nelle modalità che hai appena descritto. Ma proprio grazie al tuo splendido reportage per il New York Times, per la prima volta il mondo ha compreso il reale impatto della pandemia sugli ospedali e quindi sull’intera società.
Devo premettere che l’approccio del New York Time è particolare. Mi ha garantito il tempo necessario per organizzare e sviluppare la storia e si lavora in team, lavorare durante quel primo lockdown non è stato facile. Ovviamente una testata di quel genere aumenta la visibilità, ma detto questo, io non ho cambiato approccio. Ho scattato quelle foto il 15 marzo 2020 dopo aver lavorato sulla presenza e sull’assenza di certe immagini e poi ho scelto quali proporre.
Massimiliano Boschi