Controlli sui dipendenti: liberalizzati dal Jobs Act, ma con più trasparenza

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Ci si era già occupati delle leggi che regolano i controlli sui dipendenti e la tutela della privacy del dipendente e quali limiti (molti) ci sono alla possibilità che il datore di lavoro registri le telefonate dei dipendenti. Torniamo ad approfondire il tema con l’avvocato Emiliano Pellegrino, avvocato responsabile della sede romana dello studio Spolverato Barillari & Partners, a cui il legale esperto di lavoro e norme sindacali Gianluca Spolverato dà spazio sul magazine online Il Futuro al lavoro.

Le novità sul controllo dell’azienda sui dipendenti sono intervenute con il decreto legislativo 151 del 2015 – uno dei decreti attuativi del Jobs Act – che ha modificato l’articolo 4 della legge 300 del 1970. Proprio l’articolo 4, ricorda Emiliano Pellegrino, delimita l’ambito dei controlli leciti a distanza. «Secondo l’attuale normativa – scrive l’avvocato –, in particolare, i controlli sono legittimi solo se finalizzati a esigenze organizzative e produttive, alla sicurezza del lavoro, o alla tutela del patrimonio aziendale. Da tali controlli può derivare anche il controllo della prestazione lavorativa o di dati che ad essa attengono, ma solo se si tratta di un controllo preterintenzionale o indiretto».

Emiliano Pellegrino

Emiliano Pellegrino

Le modifiche del 2015 però allargano questo ambito, esplicitando che i controlli a distanza possono essere validi se hanno come fine la tutela del patrimonio aziendale, che secondo Pellegrino «va inteso in senso ampio, rientrandovi non solo i beni materiali, ma anche quelli immateriali (per esempio il know how)». Questa fattispecie non assorbe del tutto, secondo il legale, il concetto di “controllo difensivo”. «Il controllo difensivo permane come controllo della condotta illecita, che non è detto colpisca esclusivamente il patrimonio aziendale».

Resta un punto fermo della legge del 1970: serve un accordo sindacale o un provvedimento amministrativo affinché i controlli a distanza sui dipendenti siano legittimi. Ma ci sono delle novità, anche qui alcuni angoli sono stati smussati in favore dell’impresa e c’è una via preferenziale a cui questa può sempre appellarsi: quando il confronto sindacale (obbligatorio in via preliminare) ha esito negativo, infatti, l’azienda può chiedere una autorizzazione ministeriale.

Che cosa farne dei dati raccolti? Questi possono essere «impiegati per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, e quindi anche disciplinari» riassume l’avvocato citando il nuovo comma 3 dell’articolo 4 della legge. In sostanza questo uso è specificato in maniera talmente chiara nel nuovo testo, è la tesi dell’avvocato, che se i sindacati si oppongono all’utilizzo a fini disciplinari, il Ministero del lavoro non può escluderlo. «Ciò sarebbe in contrasto con le disposizioni di legge» dice Emiliano Pellegrino.

Gianluca Spolverato

Gianluca Spolverato

Sono due i baluardi a difesa del diritto alla riservatezza del lavoratore che si collega strettamente alla sua stessa dignità. Prima di avvalersi dei dati acquisiti, infatti, il datore di lavoro deve: primo, «procedere all’informazione preventiva circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli», e secondo, «rispettare il Testo Unico sulla Privacy». In sostanza il principio di trasparenza – cioè l’informazione chiara e completa, e soprattutto preventiva, data al lavoratore circa i controlli al quale sarà sottoposto – viene a controbilanciare la maggior libertà dell’impresa di “spiare” il proprio dipendente.

Questa informazione non basta che sia formulata in forma orale. Verba volant, scripta manent. Serve un’informativa in forma scritta e comunque documentabile da parte del datore di lavoro. «L’informativa va riferita a tutti gli strumenti utilizzati per lavorare – sono le conclusioni dell’avvocato Pellegrino –, non potendosi ipotizzare un’unica informativa generica, che risulterebbe in contrasto con il principio di trasparenza dei controlli».

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