Silvio Berlusconi: il Piccolo Inquisitore e la disfatta della sinistra italiana
Pur non prendendo sul serio il processo di beatificazione in atto, il giorno del funerale di Silvio Berlusconi non può essere l’occasione per tornare sui suoi guai giudiziari, sul conflitto d’interessi o sul bunga bunga, temi su cui si è dibattuto per decenni e che affrontare oggi sarebbe inutile ancor prima che indelicato. Anche riproporre l’ormai infinito scontro tra chi l’ha amato e chi l’ha odiato è tanto facile, quanto inutile. La morte del Cavaliere consente, invece, di cominciare a ragionare sul suo impatto sulla società italiana al di là degli schieramenti, prendendo le distanze della bagarre politica che tanto appassiona le redazioni italiane. Si può persino ripartire dalla reinterpretazione di un classico della letteratura mondiale: “I Fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij .
Il piccolo inquisitore
Il capitolo del “Grande Inquisitore” dei Fratelli Karamazov permette, infatti, di comprendere più lucidamente il contesto in cui il Cavaliere si è inserito per poter diventare il presidente del Consiglio italiano più “longevo” della storia repubblicana e, soprattutto, di ragionare sulla sconfitta dei suoi avversari che, proprio nel giorno dei funerali di Stato per Berlusconi, sembra raggiungere il suo apice.
Più in particolare, può tornare utile l’interpretazione che ne fa il sociologo barese Franco Cassano, scomparso due anni fa. Nel suo “L’umiltà del male” (Laterza) ha ripreso, infatti, il capitolo de “Il Grande Inquisitore” proponendone un’interpretazione più ampia e complessa dell’abituale, troppo spesso confinata alla generica condanna della Chiesa che sfrutterebbe le debolezze del popolo per asservirlo e allontanarlo dal messaggio emancipatore di Cristo.
Pur riconoscendo che le debolezze umane “sono le leve su cui il potere fa presa per subordinare l’uomo e per renderlo dipendente” e ribadendo che il potere “coltiva e alimenta la debolezza dell’uomo perché ne ha bisogno, perché essa è il fondamento della sua forza”, Cassano finiva per concludere che “tutto questo non deve portare chi si oppone a liquidare la capacità di parlare con tutti e di provare a capirne le ragioni”.
Più in dettaglio, il sociologo barese ha attualizzato le tematiche del Grande Inquisitore medievale, mostrandolo come il vero eroe del nostro tempo: “quello che, dismesso come arcaico e repressivo ogni scomodo confronto con i principi, scambia la democrazia con l’esibizione della propria volgarità. Che cosa c’è di più infantile di questa fabbrica delle tentazioni, di questa incontinenza di massa, di questa concentrazione ossessiva su se stessi? I Grandi Inquisitori del nostro tempo non rinviano alla salvezza eterna, ma agli orgasmi del presente, non custodiscono verità rivelate e il potere di un apparato, ma sono democratici, ripetono al popolo che ha sempre ragione. E se nel passato il mezzo poteva essere quello della sottomissione esplicita al potere, del genuflettersi del suddito, della rinunzia ai diritti, oggi esso consiste invece nella rinunzia ai doveri, in una sorta di superomismo dei peggiori, in un dilagare della volgarità”.
Ancor più esplicitamente, ha sottolineato come “I sostituti economici e simbolici dei vecchi dispositivi di comando del Grande Inquisitore (miracolo, mistero, autorità), prodotti dal capitalismo dei consumi (merci, edonismo, evasione) sono efficaci come quelli (…) Ma solo conoscendo quei dispositivi e ricostruendo il loro legame con la debolezza dell’uomo si può provare a trasformarli. Occorreevitare che la differenza di cultura e di gusto si trasformi in cecità e supponenza”. Per Cassano: “l’obiettivo è chiaro e costante: mantenere gli uomini in uno stato di perenne immaturità, come se fossero dei bambini. E i mezzi possono essere i più diversi: se nella Leggenda il Grande Inquisitore esalta il miracolo, il mistero e l’autorità, oggi offrirebbe anche e soprattutto i consumi, il piccolo divismo dei mediocri, il narcisismo amorale dei reality etc…”.
In sintesi, il terrore dell’Inquisizione è stato sostituito dalla “seduzione” della società consumistica a cui la massa si è genuflessa con lo stesso zelo. Un fenomeno che è emerso in tutta la sua forza a seguito della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994 e che ha finito per scatenare quella “repulsione antropologica nei riguardi delle plebi dominate dal consumismo” su cui si è concentrata l’analisi di Cassano che, per altro, non cita mai il Cavaliere.
Una repulsione che ha disintegrato in un baleno un vero e proprio “mito” della sinistra: il popolo, “i più deboli”, ovvero quelli che erano al centro della tradizionale narrazione politica. Una repulsione che ha spianato la strada al “piccolo inquisitore” di Arcore, che ha avuto gioco facile nell’allargare la frattura tra la sinistra e quello che era il suo tradizionale elettorato di riferimento. In questo contesto, l’immenso potere mediatico di Berlusconi si è limitato ad accompagnare il processo.
La sconfitta della sinistra
Di fronte alla potenza di fuoco del berlusconismo, la sinistra si è presto rifugiata nel “rispetto delle regole”. Posizione pressoché inevitabile contro chi esaltava l’evasione fiscale e una gestione quanto meno allegra dei conti pubblici. Nel farlo, però, la sinistra ha dimenticato che per alcune categorie il rispetto delle regole è più facile che per altre. La questione dell’evasione fiscale ne è solo l’esempio più lampante. Come sottolineato da Cassano: “per estendere il rispetto delle regole occorre anche re-distribuire i rischi e le connesse esposizioni alle tentazioni”.
Ecco, nel giorno del funerale del “Piccolo inquisitore”, la sinistra potrebbe provare a ripartire proprio dall’”Umiltà del male” di cui scriveva il sociologo pugliese. Fosse solo perché “non bisogna lasciare al conservatorismo la confidenza con la debolezza dell’uomo”.
“Ci sono -spiegava Cassano – altre dimensioni della debolezza che occorrerebbe smettere di guardare con supponenza: il bisogno di protezione, l’affidarsi al rito e alla festa, il desiderio di ridere e giocare, la fede nell’aiuto della fortuna sono solo alcune delle tante manifestazioni della nostra insufficienza ed imperfezione, della nostra condizione di esseri finiti”. Ovviamente, questo non significa accettare le manovre di piccoli e grandi inquisitori che si possono e devono combattere, ma è poco lungimirante considerare inaccettabili le debolezze di cui si cibano, non solo perché, in un modo o in un altro, riguardano tutti.
Infine, rifugiarsi nella propria identità distintiva, rimarcando la propria differenza con la massa “analfabeta” non serve assolutamente a nulla. La storia della sinistra italiana fino al 1989 non è un souvenir da tirare fuori per le ricorrenze, dovrebbe aver insegnato che le ragioni delle masse non vanno ignorate e condannate, ma che occorre provare a comprenderle anche e soprattutto quando non le si condividono. Perché il progresso è figlio della guerra all’ignoranza, non agli ignoranti.
Massimiliano Boschi