La versione dello Zio: quando gli inni non erano nazionali
Una delle ragioni, forse la principale, che fa sì che sia faticoso superare il concetto di nazione è che, per quanto pestifero possa essere in sé, con esso il popolo si sente fonte della legittimazione, e si tratta nel complesso di una conquista recente: prima c’è solo la grazia di Dio, come diceva l’intestazione dei Savoia. L’espressione è molto interessante, perché che le monarchie dovessero rispondere a o potessero servirsi di criteri etnici era nell’Ottocento una novità assoluta. A loro modo le monarchie europee erano internazionali, interculturali, spesso plurilingui. Erano di fatto imprese private legate tra loro da interessi e consanguineità.
Per dire ancora, l’inno del Kaiser è sulla melodia di “God save the King”, è la Repubblica di Weimar che mette il quartetto imperatore di Haydn.
Talking of Heidi: addirittura la Svizzera, stato indipendente (ma federativo e “internazionale” da sempre) da tantissimo tempo aveva lo stesso inno che indicava in qualche modo un’appartenenza paneuropea legata in sostanza alla nobiltà tedesca del sacro Romano impero, poi intorno alle metà del secolo scrivono il salmo svizzero: invece, come ho scoperto al 2 giugno dell’anno scorso, l’inno del Liechtenstein ha ancora quella melodia, e del resto il piccolo stato è ancora di fatto un possedimento semiprivato del principe, e porta il nome della casa regnante.
Infine, in Africa, dove le nazioni sono un retaggio del colonialismo, è avvenuto un processo simile e inverso, per cui la Tanzania, lo Zambia e il Sudafrica (parte iniziale, la seconda è l’inno Afrikaner) hanno adottato lo stesso, e meraviglioso, inno panafricano.
Francesco Ziosi
“La versione dello Zio”: l’opinione di Francesco Ziosi
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