Bolzano Danza, da "cavallo morto" a Festival 2.0: il bilancio di Emanuele Masi sulla sua direzione

Bolzano. “Era l’estate del 2010 e durante una riunione il direttore del Festival di allora (Manfred Schweigkofler, ndr) disse che ormai Bolzano Danza era un cavallo morto. La presi un po’ come una sfida perché mi piace prendermi cura delle situazioni sofferenti”: così Emanuele Masi, direttore artistico di Bolzano Danza, racconta come è iniziata la sua avventura al Festival. Avventura su cui, dopo 15 anni di lavoro e 14 edizioni di successo come direttore, Masi ha deciso di scrivere la parola fine.  Lo abbiamo incontrato per una chiacchierata di bilancio alla vigilia dell’edizione 2024, in cui si festeggiano i 40 anni di Bolzano Danza (ne abbiamo parlato qui). Iniziamo facendo un passo indietro, per capire come Masi abbia plasmato in questi anni Bolzano Danza, trasformandolo da rassegna frontale in un Festival 2.0, Anche se con la consueta pacata naturalezza specifica: “Non mi ritengo un esperto di danza, nella danza ho trovato casualmente l’occasione di mettere in campo delle politiche culturali perché mi ritengo un programmatore culturale, Kulturmacher si direbbe in tedesco”.

Tornando al Festival “cavallo morto”, come è avvenuto il cambio di rotta?

Ai tempi mi occupavo di opera come segretario artistico alla Fondazione Teatro Comunale, ma seguivo anche gli spettacoli di danza. Effettivamente era un festival con otto, nove spettacoli ed un paio di appuntamenti fuori dal teatro. Quasi di nascosto pensai di programmare uno spettacolo in meno in teatro e di usare quel budget come volano per appuntamenti da fare nella città e nei dintorni, legandomi a iniziative che già c’erano – ad esempio le colazioni sul corno del Renon all’alba, perché non farle con la danza? La stessa cosa feci in seguito con Museion, che nei mesi estivi aveva le facciate mediali. Insomma, iniziati a pervadere e parassitare altre realtà nel segno della danza.

E quindi il Festival è cresciuto e si è allargato. La più grande soddisfazione in questi anni?

La cosa di cui posso andare più fiero è di essere riuscito a far crescere il Festival in termini quantitativi- tra spettacoli e incontri abbiamo oltre 40 appuntamenti – ma anche qualitativi. Certo non sta a me giudicarlo, ma il tipo di reputazione che oggi ha il Festival, il tipo di relazioni nazionali e internazionali che ha intessuto nel panorama europeo fa credere che effettivamente lascio un Festival in buona salute.

Comunque, a livello di numeri non vi potete lamentare, con l’ultima edizione che ha superato le 5000 presenze e registrato diversi sold out.

Il Festival ha recuperato il pubblico pre-pandemia ed è cresciuto progressivamente negli ultimi 15 anni. Ma se devo fare un bilancio, non voglio raccontare di aver raddoppiato, ma di aver creato un’offerta più profonda, capace di accontentare pubblici più ampi.

Eppure Bolzano non è una città particolarmente aperta al contemporaneo e alle sperimentazioni.

La parola contemporaneo applicato alla danza è molto vasta, noi abbiamo percorso tutti i possibili linguaggi, dalla performance più ermetica e imperscrutabile, che tanti comunque amano, allo spettacolo per tutti, che magari una nicchia invece detesta, ma di fatto coinvolge ampi strati di pubblico. Volutamente la mia programmazione è stata ecumenica -come la definisco.

Ci sono cose che non rifarebbe?

Ci sono iniziative che probabilmente all’inizio intraprendevo con spirito un po’ naif e che col senno di poi potevano risultare una forma paternalistica di approccio rispetto a certe comunità e quartieri. Ad esempio, nel 2012 avevamo portato al quartiere Casanova la performance di un danzatore che ballava con il braccio di una scavatrice in mezzo alle case Ipes: un’operazione che poteva anche essere intrigante, ma che era avulsa dalle persone che abitavano li e guardavano dai balconi quasi infastiditi questa invasione del loro spazio.

E quindi ci sono stati cambi rotta?

Si, in quell’urgenza di radicare il Festival mi ero convinto che queste potessero essere anche operazioni di marketing secondo la logica “io ti porto uno spettacolo e tu verrai a teatro”. Col tempo ho capito che non era così, non si doveva calare un contenuto dall’alto, ma interagire con soggetti che già operano nei quartieri, ad es. per la stagione Estiva Don Bosco con il Semirurali Social Parc. È stato anche il momento in cui ho invitato dei guest curator, artisti che venivano da fuori e immaginavano un programma culturale guardando la città con occhi diversi.

E il pubblico da fuori Bolzano? È abbastanza o potrebbe crescere?

Si potrebbe andare meglio o peggio, sarebbe bello coinvolgere ancora più persone da fuori, ma a luglio gli alberghi sono sempre più pieni e molti colleghi rinunciano perché non trovano una camera a meno di 200 euro a notte. Stesso discorso per le compagnie, abbiamo difficoltà a farle alloggiare e questo è un problema e in qualche modo una barriera allo sviluppo – a volte ci costa meno il cachet della compagnia che il suo pernottamento.

In questi anni ci sono stati momenti di difficoltà o delusioni?

Forse la più grande delusione è quella di avere la percezione di una società che un po’ alla volta si sta chiudendo rispetto all’incontro e all’inciampo nella cultura, l’incontro con l’inaspettato, sia da un punto di vista del passante casuale, sia da parte di una politica che per questioni di burocrazia e di sicurezza è sempre più controllante rispetto a quello che succede per esempio nello spazio pubblico.

Intende per via dei permessi, autorizzazioni etc.?

La burocrazia che sta attorno a un piccolo spettacolo nella piazza di una città o in uno spazio nella natura diventa soffocante: c’è un irrigidimento di fronte a iniziative che hanno un valore puramente culturale, non distinguendole da quelle che generano vere problematiche nella vita di una città o di un paesaggio alpino.

Riguardo allo spazio pubblico di Bolzano uno dei temi di questi mesi è il contrasto al degrado e la sicurezza, con una tendenza forse a confondere tematiche sociali e criminalità.

A proposito trovo interessante quanto sta facendo il Comune di Trento, che sta predisponendo il suo piano culturale per Trento 2034 e tra gli output di questo lavoro programmatico c’è il fatto che la cultura crea sicurezza e che la sicurezza non deve essere un tema escludente o limitante, ma uno strumento.

A proposito di Bolzano, cosa apprezza di più e cosa meno della città?

Apprezzo il forte impegno verso cultura di qualità che contraddistingue città e provincia. E naturalmente il fatto che in 25 minuti di macchina si è davanti alle Dolomiti. Quello che apprezzo meno è che ampi strati di popolazione sembrano profondamente scontenti e ancora pieni di rancore. Eppure, si vive bene, non c’è disoccupazione, c’è ricchezza diffusa … quindi forse soprattutto nel gruppo linguistico italiano un certo senso di sopraffazione potrebbe lasciare il posto a constatare quello che c’è.

Il fatto di portare il Festival in una terra bilingue ha influenzato il suo lavoro?

Nella danza questo tipo di differenze si annullano, il nostro pubblico è übergrenzend. Sfogliando la pubblicazione per i 20 anni del Festival, in un testo scritto da Campostrini si dice che è il Festival trova la volontà di essere creato perché allora, negli anni ottanta, si preferiva vedere danzare invece di parlare. Diceva che la danza era diventata una lingua capace di unire, una “nuova lingua”, e credo che questo sia vero.

Per anni lei è stato il volto che accompagnato il Festival, ora che questa avventura si chiude possiamo chiederle cosa farà da grande? Ci può dare qualche anticipazione?

Non do anticipazioni perché non ce ne sono nel senso che non bolle niente di nuovo in pentola. La mia è una scelta di coerenza rispetto a quello che credo sia necessario per il Festival adesso e per il mio percorso, un arco di direzione artistica che credo sia giusto e bello concludere con un anniversario simbolico come questo dei 40 anni.

Quindi rimarrà in Alto Adige?

Si certo, qui ho due figli che voglio vedere arrivare alla maturità. Oltre a dirigere anche il Festival Equilibrio a Roma, rimango nel mio ruolo di funzionario alla Fondazione Haydn, dove da qualche tempo sono anche responsabile dell’area di sviluppo strategico.

Cosa le mancherà di più di Bolzano Danza?
L’adrenalina, la gioia e la stanchezza che si vive a luglio, oltre alla grande soddisfazione. Durante il Festival mi piace osservare sorridendo interiormente gli incontri che si generano tra artisti e pubblico, le strette di mano e i rapporti. Un po’ come quando guardi successi dei tuoi figli o le interazioni che i figli hanno con gli amici e le osservi come qualcosa che è un po’ anche tuo. E in fondo questa immagine è quella che mi spinge a lasciare, c’è un momento in cui senti che una vita è avviata e sei contento di vederla andare. Ci vuole onestà intellettuale.

Caterina Longo

Immagine in apertura: Emanuele Masi. Foto Andrea Macchia, courtesy Festival Bolzano Danza

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