Reddito addio. L'allarme di Buonerba (Cisl): «Ripensare il welfare o è la fine»
«Sono sempre le grandi crisi a determinare i grandi cambiamenti. Riguardo al welfare questo è il momento per passare dalle parole ai fatti. L’alternativa non ce la possiamo permettere». Il segretario della Cisl Alto Adige Michele Buonerba esprime il concetto con grande chiarezza e determinazione. Difficile dargli torto, ma da due mesi a questa parte tutto ha incominciato a cambiare molto rapidamente e i confini e la dimensione di questi mutamenti sono ancora indefiniti. Ogni settore economico, ogni paese, ogni lavoratore è rimasto coinvolto, seppur in modalità molto differenti, in una crisi inattesa e imprevedibile.
Comprendere dove ci porterà tutto questo è complicatissimo e comunque nessuno ha voglia di assumere il ruolo del profeta di sventura. E’ tutto questo a spingerci a credere che la crisi che stiamo attraversando sia anche una possibilità. Sempre che la si affronti guardando al futuro che ci aspetta e non al passato che rimpiangiamo. Dirlo a Buonerba significa sfondare porte spalancate: «Non ho dubbi, la pandemia ci ha posto di fronte alla necessità di modificare decisamente i paradigmi del welfare, continuare a far finta di vivere nel Novecento non può che portarci al fallimento».
Togliamoci subito il dente. A suo avviso, questa crisi ci spingerà a risolvere vecchi problemi o ci darà il colpo di grazia?
«In estrema sintesi: se abbiamo imparato la lezione può trasformarsi in una grande possibilità, se non l’abbiamo imparata ci darà il colpo di grazia».
Che sia giunto il momento di intervenire anche su alcune rendite di posizione? In Alto Adige molti negozi faranno fatica a riaprire o a resistere, non solo a causa della chiusura, ma anche degli altissimi affitti che in gran parte sono stati pagati anche durante i mesi appena trascorsi.
«Nei centri storici è sicuramente così, ma è anche vero che è difficile intervenire su contratti privati siglati tra le parti. Inoltre, non credo mancheranno richieste di subentro a chi dovesse chiudere, almeno nei centri storici. Detto questo, stiamo parlando di cifre che spesso superano i 10.000 euro al mese e in caso di locali più ampi superano abbondantemente i 20.000. Numeriche ovviamente influenzeranno la ripresa e influenzano i tassi di occupazione, con queste cifre non resta molto per i dipendenti. Credo valga la pena ricordare alcuni dati relativi alla situazione attuale. Al momento ci sono circa 40.000 persone in cassa integrazione nelle varie forme, più 5000 persone che vivranno di sussidi e un numero imprecisato di persone facenti parte del mondo delle Partite Iva a cui al momento sono stati garantiti solo i bonus».
Nel settore della ristorazione, vista anche la connessione con il turismo, la situazione appare anche peggiore.
«Per ristoranti, bar e alberghi molto dipenderà da come la clientela reagirà alle norme di sicurezza sanitaria che sono state imposte per impedire la diffusione del virus. In queste condizioni, gli incassi saranno ridotti del 70% circa, ovviamente in un contesto simile gli affitti avranno un impatto pesantissimo sull’occupazione».
Più in generale, cosa ci dobbiamo aspettare?
«Un crollo del reddito generalizzato per chi lavora nel settore privato, nell’industria e anche nei servizi dove già i redditi erano da fame. Nel settore turistico, molto importante per questa provincia, non si ripartirà prima dell’inverno e dal punto di vista del reddito e dell’occupazione saranno dolori. Questo influenzerà anche il settore più collegato a quello del turismo, l’artigianato che in Alto Adige vive di rinnovi e ristrutturazioni di alberghi, pensioni etc. E uno scenario decisamente pesante».
Come si può invertire la rotta?
«Attivando politiche del lavoro che permettano ai disoccupati di riqualificarsi e di trovare nuova occupazione. Da questo punto di vista in Alto Adige è stato fatto pochissimo. Il sistema della formazione di base è migliore del resto del Paese, ma quella continua rappresenta uno dei nodi cruciali della nostra mancanza di competitività economica e sociale. Inoltre, occorre rivedere il modello turistico che già prima del Covid non era più sostenibile dal punto di vista ambientale. La crescita era ormai al limite, viste le dimensioni e la conformazione del territorio. Ricordo che è un settore a basso valore aggiunto con tassi di produttività bassissimi e quindi con un apporto al PIL inferiore a di altri settori come l’industria. E’ giunto il momento di investire su ammortizzatori sociali che siano più dignitosi per le persone, ma credo che da questo punto di vista riusciremo a chiudere un accordo positivo con la Provincia. Infine, dobbiamo assolutamente sviluppare relazioni industriali territoriali che differiscano e sostituiscano quelli nazionali che hanno dimostrato di non essere in grado di far aumentare il salario reale che è fermo dai tempi della lira».
Ultima questione: si è parlato molto di smart working, forse a sproposito.
«Sì, lo smart working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali. E’ un’organizzazione per obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Nei fatti, invece, chiamiamo smart working il telelavoro, ovvero si lavora dalle 8 alle 17 da casa invece che in ufficio con le stesse modalità di prima. Serve, quindi, un accordo su smart working e telelavoro per permettere il diritto alla disconnessione che viene spesso negato. Devo dire, però che da questo punto di vista ho trovato una discreta disponibilità da parte degli imprenditori».
Massimiliano Boschi