Crisi idrica: il problema non sarà se si potrà sciare. Il problema sarà se si potrà bere

Ambiente. Va in archivio una stagione sciistica che, in Italia come in Svizzera e altrove, ha suscitato polemiche sull’utilizzo di acqua per l’innevamento artificiale. Pratica senza la quale, inutile girare attorno al problema, lo sci di massa a ogni costo e in ogni inverno sarebbe già una cartolina di ere passate. Va in archivio mentre l’Italia – in particolare quella settentrionale – entra in una stagione in cui la ennesima carenza d’acqua sta già spingendo il governo a rituali tavoli di emergenza. Nelle emergenze peraltro gli italiani di solito eccellono; nell’evitarle molto meno. Per un paese che la scienza descrive come hotspot del cambiamento climatico, non una prospettiva rassicurante.
Emergenza idrica ormai ricorrente, il cui rischio era già chiarito dai modelli climatici fin dal primo Rapporto di Valutazione (AR1) del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), pubblicato nel 1990. Trentatré anni fa: quello che sta succedendo non è quindi un imprevisto dell’ultima ora. E non destinata ad invertire. In breve: di acqua ne avremo a disposizione sempre di meno: bisogna decidere come e per cosa usarla. Il problema non sarà se si potrà sciare. Il problema sarà se si potrà bere. Per informazioni digitare “Africa subsahariana”, visto che le temperature europee stanno dirigendosi verso quei livelli (AR6, appena pubblicato). Con terminologia più tecnica: stiamo entrando in un’era di conflitti intersettoriali per la risorsa-acqua.

Veniamo al punto. Al progressivo diminuire della neve naturale fa ormai regolarmente seguito un aumento delle richieste degli operatori turistici ma anche delle amministrazioni locali per nuovi e ulteriori interventi pubblici a sostegno dell’industria dello sci. Tipicamente: nuovi impianti di collegamento e nuove infrastrutture per l’innevamento artificiale.
Per alcuni (critici) si tratta di un accanimento terapeutico nel tenere in piedi un modello economico comunque segnato (l’OCSE – l’OCSE, non Greenpeace o Fridays for Future – segnala già dal 2006 che lo sci al di sotto dei 1800 metri è destinato al fallimento). Per altri (chi di industria dello sci vive e chi – milioni di turisti –si diverte comunque a sciare sulle note “strisce di carta igienica” bianche senza farsi domande sulle montagne gialle, marroni e assetate tutt’attorno) una necessità imprescindibile. Insomma, meno nevica più bisognerebbe investire nell’industria sciistica.
Sembra un paradosso. Come si spiega? Si spiega. Qua sotto le mie personali osservazioni.
La prima: suscita stupore che siano anche località sciistiche marginali (per esempio in ambiente appenninico o prealpino) a richiedere proprio ora l’intervento pubblico per la loro espansione. In realtà non dovrebbe sorprendere: è esattamente quello che gli studi di settore dicono loro di fare. In pratica (semplificando un po’ ma neppure troppo): più sei piccolo e a bassa quota, più urgentemente devi collegarti con chi è più grosso e sta più in alto. Il vantaggio, per il turista-sciatore, sarebbe quindi che non importa se dove prenoti l’hotel non ci saranno né neve né temperature per fare la neve “tecnica”, perché tanto i nuovi sistemi a fune ti porteranno fino ai 3000 mslm dei comprensori “sicuri” un paio di valli più in là. Non collegarsi ora con la neve “artificialmente sicura” significa morte – questa sì – sicura per tanti piccoli comprensori. Prealpi (non solo italiane) e Appennini sono già ora pieni di scheletri di stazioni sciistiche defunte (che andrebbero rimossi, ma nessuno lo fa). La lista è comunque destinata ad allungarsi.

Seconda osservazione: l’intervento pubblico viene richiesto ora semplicemente perché si è ancora in tempo a farlo. Altri dieci anni, forse meno, e sarà politicamente difficile per chiunque dirottare risorse pubbliche per un’industria il cui livello di insostenibilità e obsolescenza in molte aree sarà evidente. Anche se il livello di dipendenza (in senso tossicologico) delle vallate alpine dall’industria sciistica è tale che mi risulta difficile immaginare una via d’uscita. Forse i soldi pubblici continueranno a piovere e pioveranno per surrogati dello sci di cui – da fruitore e amante delle montagne – mi preoccupa solo il pensiero: dalla neve sintetica (ovviamente certificata “sostenibile” e “biodegradabile”) ai divertimentifici in quota. Il tutto, non c’è bisogno di ripetere, certificato “naturale e sostenibile”. Almeno fino a quando il turista-a-una-dimensione (ringrazio e ricordo Herbert Marcuse per la citazione) non comincerà a farsi domande. Se mai se le porrà.

Ma c’è una terza lettura, quella che più mi affascina e che trascende il caso-neve. La devo al professor Jared Diamond e in particolare al suo best-seller Collapse: how societies choose to fail or survive. Analizzando le vicende di varie società umane, inclusi imperi durati secoli, collassate nel corso della storia, Diamond dimostra come con grande regolarità le fasi di maggiore sforzo e sfarzo architettonico siano state quelle prossime al collasso finale. Emblematico il caso dei templi della civiltà Maya, eretti mentre ripetute ondate di siccità pluridecennali portavano alla catastrofe ecologica una delle grandi civiltà precolombiane. Quando lì arrivarono i conquistadores non servirono né gli archibugi, né i feroci cani da combattimento né quel formidabile alleato di noi colonialisti europei che furono le nostre pulci infette, virus e batteri. I templi erano già sotto le giungle. I Maya lo spettro di quello che erano stati.
E i templi di questa “ultima” (?) stagione dello sci di massa, quali sarebbero? Vi do un paio di suggerimenti. Avete mai visto i ristoranti sulle piattaforme rotanti sulle cime delle Alpi svizzere? I rifugi progettati da architetti-star che ormai trovo molto improprio definire “rifugi”? E i “templi dell’effimero” come le aragoste servite a 2500 mslm? E la lista dei ponti sospesi progettati nei luoghi finora inaccessibili, magari per andare a vedere i ghiacciai che muoiono? E tutto quello che sta per arrivare per attirare il turista asiatico post-Covid? Quello che ha un solo giorno e mezzo per “vedere le Alpi” mentre sta facendo lo Europe-trip e che non cammina neanche per 100 metri perché da loro camminare è da poveri (come lo era da noi negli anni ’60 del boom, decenni prima che scoprissimo l’outdoor)? A cosa pensate che servano gli aeroporti nelle vallate alpine?

Lo sforzo di gigantismo turistico di questi anni sarà il preludio al collasso? È un sintomo della nostra incapacità di proiettare noi stessi in un futuro le cui regole sono ormai dettate dal cambiamento climatico? In cui nulla sarà come nei rassicuranti ultimi decenni? Le Alpi come fenomeno turistico sono state scoperte dagli alpinisti aristocratici (soprattutto) inglesi meno di 200 anni fa. Fu per molti decenni pratica molto elitaria. Lo sci di massa nella sua presente forma non esisteva fino a 40 anni fa. Quanto durerà? «Was ist die Schweiz ohne Schneekultur? Für ein Requiem ist es also zu früh, doch es zeichnet sich immer klarer ab: Mit dem Weiss und somit dem Skispass geht’s zu Ende.» Se chiede La Neue Zürcher Zeitung a gennaio 2023. La domanda vale per tutte le Alpi. Per quelle meridionali anche di più. Quanti templi andremo a costruire da qui ai prossimi 40 anni? In tutti i modi, non sarà una giungla tropicale a seppellirli (per la giungla tropicale a queste latitudini le temperature non saliranno abbastanza e il clima sarà comunque troppo arido). Forse li seppellirà il silenzio.

Mauro Balboni

Immagine di apertura: foto Venti3

 

 

Ti potrebbe interessare