Daniele Rielli: «In Odio racconto il conflitto tra tecnologia e libero arbitrio»
Questa è l’ottava puntata di Bit Generation, una serie di articoli sulla cultura digitale. Videogiochi, nuove piattaforme, rapporto con la tecnologia, cultura visuale. Oggi, per la prima volta, parliamo di un romanzo, di una storia inventata, con il suo autore. Intanto, qui si trova la nuova sezione speciale della rubrica con tutte le altre puntate. Sulla homepage di «Alto Adige Innovazione». Dai, c’è l’illustrazione della serie, se ci si clicca su.
Il romanzo di cui parliamo in questa puntata di Bit Generation si chiama Odio, è uscito per Mondadori poche settimane fa e il suo autore è Daniele Rielli. Rielli è nato a Bolzano nel 1982, ha scritto un romanzo per Bompiani (Lascia stare la gallina), una raccolta di reportage per Adelphi (Storie dal mondo nuovo) ed è il regista di Hockeytown, il film documentario sull’Hockey Club bolzanino. Nel suo nuovo romanzo, Rielli racconta delle vicende di Marco De Sanctis, fondatore di BEFORE, un’azienda che si occupa di tecnologia. Grazie a un futuristico sistema predittivo di intelligenza artificiale, BEFORE riesce a prevedere, in maniera molto accorta, il comportamento dei consumatori. Questa tecnologia si può usare sia per cose molto quotidiane, come gli acquisti, sia per rovistare tra le cose più profonde dell’essere umano e quelle del potere.
Il mondo che hai costruito in Odio è simile al nostro ma un po’ diverso, è la realtà con qualche scarto laterale. Nel romanzo, Roma diventa un centro tecnologico d’avanguardia, attraverso BEFORE, l’azienda che si occupa di analisi predittive di Marco De Sanctis. Com’è la versione ‘romana’ del concepire l’innovazione tecnologica applicata?
Roma nel contesto del romanzo m’interessava perché per molti versi è la capitale meno occidentale d’Occidente, a Roma segni di epoche precedenti sono evidenti ovunque, non solo nella stratigrafia urbanistica ma anche nella cultura, nei modi di pensare delle persone. Roma è familistica, tribale, ma anche cinica, ironica, rassegnata, di certo non è mai stata conquistata del tutto dal paradigma del razionalismo capitalista, e, entro certi limiti, neppure da quello democratico dell’uguaglianza davanti alla legge o in generale fra cittadini. Oltretutto Roma è una grande città ma è anche profondamente provinciale quindi è un po’ come se fosse sospesa al centro di quel contrasto fondamentale della nostra epoca che quello fra città e provincia. Roma soprattutto è lo stato di eccezione perenne, un posto che viene governato – quando viene governato – sempre sulla base dell’emergenza, mai su quella della pianificazione. Questo vale ancora nell’epoca del digitale in cui la razionalizzazione si è fatta ancora più stringente. Questo contrasto mi sembrava interessante e potenzialmente ricco di conseguenze per l’economia del racconto.
Come funziona BEFORE? E che ruolo ha il libero arbitrio nel tuo romanzo? Cosa ne pensa il protagonista di Odio? Per te, invece, c’è possibilità di libero arbitrio nel nostro pezzo di mondo, ad oggi? Il libero arbitrio è compatibile con l’innovazione tecnologica?
Il tema del libero arbitrio è enorme e s’interseca con quello altrettanto ampio, e anche più oscuro, della coscienza, che rimane ancora oggi uno dei maggiori misteri in campo scientifico. Lo stato attuale, pur sempre in divenire, del nostro sapere ci dice però con una certa chiarezza che molte delle teorie umanistiche sul libero arbitrio si sono dimostrate finzioni narrative e in realtà siamo integralmente determinati dalle leggi della materia, tutto questo risulta particolarmente significativo in un’epoca in cui gli strumenti di misurazione dell’essere umano diventano ogni giorno più pervasivi. L’idea di fondo è che se la determinazione è così rigorosa, allora osservando nel dettaglio i fenomeni fisici e psicologici che intercorrono all’interno di una persona sarò in grado di prevederne il comportamento futuro. L’azienda del protagonista di Odio, BEFORE, nasce esattamente per questo motivo.
Una persona che potenzialmente può sapere tutto di tutti (anche prima che le persone sappiano cosa desiderano) che tipo di persona è, secondo te?
A questa domanda risponde in un certo senso l’intero romanzo, quello che posso dire qui è che sin dall’inizio del libro il personaggio principale è molto restio a usare il database aziendale per scoprire i segreti dei suoi amici, anche se ogni tanto cede comunque alla tentazione. Il problema per lui non sono gli scrupoli morali ma la paura di scoprire quello che pensano di lui le persone care. Un mondo senza più mistero e senza segreti sarebbe un mondo insopportabile, e oggi è una possibilità sempre più concreta.
Nel secondo capitolo del libro hai messo in esergo una frase del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg: “Questa è la nostra sfida. Dobbiamo costruire un mondo dove chiunque abbia la sensazione di avere uno scopo e una comunità”. Una frase del genere implica il fatto che le piattaforme vogliano costruire dei miti fondativi al pari degli stati nazionali? Ci sono già riusciti? E questi miti – che formano delle tribù in eterna lotta tra loro per la supremazia della ragione di una delle parti – come influenza il dibattito pubblico?
La Silicon Valley in generale è stata abilissima a inserire il cambiamento radicale che portava nel mondo – spesso fregandosene delle leggi e mettendo le autorità nazionali davanti al fatto compiuto– all’interno di un contesto narrativo positivo, ci è riuscita con l’uso intenso di mantra pubblicitari quasi ipnotici come “rendiamo il mondo un posto migliore” quando in realtà loro primo scopo era realizzare guadagni stellari in pochissimo tempo, digitalizzando settori dove prima c’erano posti di lavoro per milioni di persone. Altra cosa in cui sono stati abilissimi è stata presentare dei temi tutt’altro che pacifici – bensì problematici, conflittuali, – come già risolti positivamente. In questo l’esempio più noto è la famosa frase di Zuckerberg che descriveva la privacy come un problema del passato. Per lui è un problema del passato perché proprio sulla distruzione della privacy si basa il suo business miliardario, ma il problema esiste eccome e riguarda la vita di miliardi di esseri umani, persone con la loro dignità che non vengono mai interpellate quando si tratta di decidere come devono essere organizzati questi grandi monopoli digitali in cui spendono ormai una parte enorme delle loro vite.
Nel tuo libro parli molto anche di altri posti nel mondo oltre all’Italia: ad esempio Berlino. Tutti i posti che nomini sembrano adatti ai giovani, l’Italia no. Berlino, in generale, sembra un posto dove poter avere una seconda possibilità o vivere un periodo-parentesi per poter ricominciare le cose da capo nel proprio paese. In Italia, secondo te, le cose si possono ricominciare da capo?
Domanda complessissima proprio perché molto generale, all’estero ho avuto in effetti più volte la sensazione che il tempo scorra su binari di maggiore normalità, e per normalità intendo quella che era la normalità per le generazioni precedenti, quindi la possibilità ad una certa età, non troppo avanzata, di fare famiglia, comprare casa, essere indipendenti economicamente oltre un livello di mera sussistenza. Detto questo vivo in Italia per un motivo, ed è perché penso che sia il paese più bello e ricco del mondo, ricco di arte, di patrimoni simbolici e di tradizione. Sta diventando uno slogan pubblicitario ma più uno viaggia più si rende conto che effettivamente nonostante tutti i problemi lo stile di vita italiano ha pochi uguali. Il che è una cosa che noi italiani in genere non apprezziamo mai a sufficienza. Fra Berlino e Roma un umanista non può che scegliere la seconda per vivere. Pur con tutte le sue surreali inefficienze è un posto dove puoi toccare con mano alcuni aspetti profondi della condizione eterna dell’essere umano che Berlino, dove ho vissuto, non ti aiuterà mai a cogliere. Su come cambiare in meglio questo paese splendido ma avviato ad un declino inesorabile non saprei cosa risponderti, è una cosa su cui rifletto continuamente: il problema è enorme, variegato, in un certo senso è una questione epocale, la nostra è una civiltà che va poco d’accordo con la modernità impersonale e globale. Di certo comunque solo gli italiani possono salvare l’Italia, trovando un mondo sostenibile di trasportare le sue peculiarità migliori nel futuro. In questo contesto la fuga è sempre un po’ una sconfitta.
Nel romanzo il tema del capro espiatorio si ricollega direttamente al tuo romanzo precedente, Lascia stare la gallina (il protagonista del romanzo appare anche lì). Nel romanzo parlasti di potere, di ambizione, di media e di un distorto senso di rivalsa sul mondo. È possibile che in Odio tu abbia preso in parte gli stessi temi, analizzandoli – però – con il filtro della rivoluzione digitale? Se sì, quale di questi aspetti citati è cambiato di più? Il potere, ad esempio.
I due romanzi sono indipendenti, si può tranquillamente leggerne uno senza leggere l’altro, Lascia stare la gallina è un romanzo popolare, di provincia, è un romanzo analogico, un libro che fra le altre cose racconta il declino dei piccoli centri nella nuova epoca globale e digitalizzata. Odio, sempre fra le altre cose, tratta il potere nazionale e il suo rapporto con quei centri di potere globali che oggi sono le piattaforme digitali. Questa, diciamo, è la differenza di contesto fra i due libri, che poi diventa anche una differenza di lingua e di struttura. Che altri temi, temi profondi, che riguardano invece le psicologie degli esseri umani tornino sotto forme diverse in entrambi i romanzi è plausibile, credo succeda perché sono quelli che mi attraggono di più come autore e come uomo.
Domandona bonus: ho notato una certa aura da romanzo – diciamo così – ‘alla francese’: Michel Houellebecq per i soliloqui (senza la parte eccessivamente misantropa) e Yasmina Reza per le situazioni intime, ad esempio. Dal punto di vista stilistico ti senti più vicino a quella nuova tradizione della letteratura francese contemporanea? E se sì, come mai? Secondo te i francesi hanno più dimestichezza con i temi del digitale rispetto agli italiani?
Citi due autori che amo molto, e per ragioni fra loro molto diverse. La letteratura italiana contemporanea mi sembra – nella maggior parte dei casi – lontana dalla realtà del Paese e del suo tempo, scarsamente interessata a raccontare il mondo che ci circonda. Una distanza che si misura anche nell’incapacità di integrare nella lingua letteraria anche le lingue parlate nella nostra epoca, sia quelle colloquiali che quelle tecniche, professionali.
Spesso il romanzo italiano contemporaneo utilizza una lingua borghese sterilizzata e semplificata, una versione basica di quella che è stata la lingua letteraria del Novecento ed è dominata da un certo tardo-perbenismo laico che personalmente trovo stucchevole. In generale poi nelle lettere italiane c’è scarsa attenzione all’osservazione dei processi produttivi, a quelli di consumo, alle organizzazioni umane e moltissima invece a un racconto un po’ didascalico dei sentimenti astratti e alle dimensioni famigliari.
In più la maggior parte dei letterati italiani definisce se stessa in opposizione al popolo e al suo tempo storico, lo mal digerisce, lo trova gretto, sbagliato, inadatto, forse proprio per questo rifiuta di raccontarlo e si rifugia in altro, in quello che sarebbe potuto essere e non è stato, l’utopia immaginaria. Io faccio parte di quella schiera minoritaria di autori italiani che pur vedendo con una certa chiarezza il profilo drammatico del nostro tempo sono anche attratti da esso, faticano cioè a vedere un oggetto narrativo più interessante.
In altre tradizioni letterarie, come quella francese che tu citi, la centralità nella letteratura contemporanea della scienza, della tecnologia e della civiltà del consumo è una cosa accettata da tempo, altrimenti appunto non sarebbe possibile raccontare la nostra epoca. Bisogna insomma intendersi su quale sia il proprio scopo, ma se è instaurare un dialogo letterario con il proprio tempo le tecniche sono numerose, i punti di vista virtualmente infiniti ma i temi sullo sfondo sono necessariamente questi.
Domenico Nunziata
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