Eichmann e il dramma della banalità
E’ possibile drammatizzare il “banale”? Si può rendere interessante quello che per definizione è scontato e privo di originalità?
Ci hanno provato Stefano Massini e Mauro Avogadro, rispettivamente autore e regista di “Eichmann. Dove Inizia la notte” in scena al teatro Comunale di Bolzano fino a domenica 15 maggio.
Lo spettacolo mette a confronto autrice e protagonista de “La banalità del male” libro di Hannah Arendt dedicato al processo al criminale nazista Adolf Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 1961.
Una vicenda e uno spettacolo che a Bolzano assumono un interesse particolare a causa di avvenimenti che non hanno nulla a che fare con il teatro.
Perché Eichmann riuscì a fuggire in Argentina grazie a documenti falsi rilasciati dalla rete di protezione sudtirolese intestati a Riccardo Klement nato a Bolzano il 23 maggio 1913 e perché proprio davanti al tribunale del capoluogo altoatesino, sul bassorilievo di Piffrader raffigurante il Duce a cavallo, è stata collocata la scritta “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Una frase pronunciata proprio da Hannah Arendt in occasione di un’intervista radiofonica del 9 novembre 1964.
Lo spettacolo ha innegabili qualità drammaturgiche: l’interpretazione di Ottavia Piccolo nei panni di Hannah Arendt e di Paolo Pierobon in quelli di Adolf Eichmann è pressoché perfetta, ma tutto finisce nel cono d’ombra della domanda iniziale.
Perché nel tentativo di “drammatizzare il banale”, il grigio burocrate descritto da Hannah Arendt viene sostituito da un Eichmann cinico e istrionico che si ribella con rabbia e sarcasmo alle accuse che gli vengono rivolte. Un personaggio che finisce per oscillare tra l’Hannibal Lecter del “Silenzio degli innocenti” e il colonnello Jessup di “Codice d’onore”.
Una rappresentazione molto lontana dalla descrizione che ne fa l’autrice de “La banalità del male” che , non a caso, lo aveva paragonato proprio ai “classici” della malvagità a teatro: “Eichmann – scrive Hannah Arendt – non era uno Iago nè un Macbeth e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che fare il cattivo – come Riccardo III – per fredda determinazione. Eccezione fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa, è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo“.
La parola che la Hannah Arendt utilizza più spesso per definire Eichmann è “mediocre”, nulla a che vedere con il personaggio messo in scena da Massini e Avogadro.
Ancor meno convince la rappresentazione di Hannah Arendt trasformata in Pubblico Ministero con tanto di toga. Perché la forza del libro della filosofa tedesca sta proprio nell’evidenziare come i crimini di Eichmann furono commessi “nell’ambito di un ordine legale e che anzi fu questa la loro principale caratteristica”. Nei suoi scritti, la filosofa tedesca incalza i giudici e l’opinione pubblica, non l’imputato.
Questo era ed è il suo più straordinario insegnamento.
Adolf Eichman incarcerato nella prigione di Ramle nel 1961 (da Wikipedia)
Quel che è accaduto può tornare a succedere e proprio il conformismo e l’obbedienza possono tornare a trasformarci in criminali, magari inconsapevoli, ma ugualmente terribili. Sono i rischi della società burocratica e gerarchica già evidenziati da Franz Kafka.
Eichmann non era uno sbruffone da piedi sulla scrivania, era un burocrate che, come il K. de “Il Processo” faticava persino a comprendere il motivo per cui si trovava sotto accusa.
Era una persona terribilmente normale, come quel vicino di casa rivelatosi un assassino che ci sembrava “una così brava persona”. Uno come noi.
Massimiliano Boschi