I giovani oltre gli stereotipi: parola al sociologo Alessandro Rosina

“La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell’autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani” recita una famosa frase del filosofo greco Socrate, spesso citata per mostrare come, nei secoli, nulla sia cambiato:  lo sguardo degli adulti verso le generazioni più giovani è destinato sempre e comunque ad essere critico. Uno schema classico, che oggi però non sembra bastare più per leggere i cambiamenti del nostro tempo, con cui sono chiamati a confrontarsi anche le politiche giovanili. Per provare ad orientarci, abbiamo chiesto aiuto ad Alessandro Rosina. Ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, Rosina studia le trasformazioni demografiche, i mutamenti sociali e la diffusione di comportamenti innovativi ed anche Coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani dell’Istituto G. Toniolo.

Residenti sui social, senza voglia di lavorare e talvolta criminali: così vengono spesso descritti i giovani nel discorso pubblico e nella narrazione giornalistica. A parte lo schema – vecchio di secoli e forse fisiologico- secondo cui per le generazioni che vengono prima quelle nuove sono sempre e comunque problematiche, come sono e come stanno, secondo lei, i e le giovani d’oggi?

Rispetto al passato c’è una differenza fondamentale: il mondo cambiava lentamente e quindi ogni nuova generazione si confrontava con prospettive e problemi simili a quelli della precedente. Aspettative, valori, attività e competenze lavorative venivano trasmesse all’interno delle generazioni e i giovani vivevano un presente fortemente informativo rispetto a quello che sarebbero stati da adulti. Lo sguardo critico delle persone adulte e più anziane poteva essere uno stimolo ed era anche un modo di guardare ai giovani e alla loro esuberanza.

E invece oggi non funziona più così…

Si, ci troviamo di fronte ad uno scenario profondamente cambiato, siamo in un momento di grandi trasformazioni. Bisogna partire da quello che i giovani sono e vogliono essere: sono nuovi e diversi a modo loro. Volerli come noi ce li aspettiamo vuol dire pensare che il mondo rimanga fermo, fisso. E adattarsi al ribasso. Invece servono un nuovo sguardo e nuove competenze, è la loro diversità che consente al mondo di cambiare.

Lei spesso sostiene che la domanda da porsi è “cosa possiamo fare per aiutarli a diventare?”. Come si fa?

Spesso tendiamo a volere giovani tranquilli e che non disturbano, in pratica delle brutte copie delle generazioni precedenti, senza nuove prospettive. Dobbiamo puntare sulla differenza e aiutare questa diversità a tradursi in valore, e questo è possibile se viene riconosciuta e aiutata con strumenti adeguati. I giovani devono sentirsi engaged, motivati. Non vogliono occupare un posto che altri hanno deciso, ma conquistare qualcosa che prima non c’era.

Eppure, con gli adulti c’è una difficoltà oggettiva di comunicazione e di linguaggi, proprio per il momento di grandi cambiamenti ed evoluzioni tecnologiche che ci troviamo a vivere.

Quello che non funziona è pensare di dover decidere per loro cosa sia giusto o meno…è un meccanismo naturale, ma la cosa importante è mettersi in una relazione autentica, per far emergere la specificità e il valore umano di chi ci sta davanti. I giovani capiscono subito e apprezzano chi si pone in questo atteggiamento di vera attenzione.

La pandemia non ha certo facilitato le cose…

Certo, la pandemia ha portato ulteriori complicazioni, in un mondo che cambia ha reso tutti più fragili e ci ha impoverito. Serve uno sforzo in più nel capire i codici ed i nuovi strumenti anche dei nuovi media, quali le insidie e quali le opportunità per sviluppare motivazione, capacità di stare in relazione, competenze non solo tecniche, ma sociali, che, appunto, rischiano di impoverirsi.

Spesso si ha l’impressione che ognuno viva nel proprio mondo, con scarso interesse per quello che succede fuori, insomma, poco stimolo anche per quanto riguarda l’impegno sociale …

Nei millennial la voglia di contare e non agire singolarmente per cambiare la società non è diminuita. In realtà i giovani vogliono contare collettivamente ed hanno voglia di farsi riconoscere in una loro identità generazionale. Vogliono essere dove le cose accadono e dare il loro contributo. I segnali ci sono: vedi l’impegno sul cambiamento climatico, ma anche in occasione di calamità naturali come per l’alluvione in Romagna. O, ancora, se guardiamo alla ragazza che ha piantato la tenda davanti al Politecnico a Milano e che ha posto una questione centrale del dibattito pubblico, chiedendo un cambiamento del sistema.

Insomma, la voglia di cambiare il mondo non sarebbe spenta…

Si, e non va ignorata. Per i giovani di oggi è importante portare un valore aggiunto e trovare qualità in quello che si fa, mi riferisco anche per il mondo del lavoro, in cui spesso si sente dire che lavori sicuri e ben pagati vengono abbandonati. Più valorizziamo i giovani più saranno disposti a dare di più.

Capitolo politiche giovanili: guardando all’evoluzione delle politiche dedicate ai giovani in Alto Adige si vede che, se nei primi anni ’80 erano considerati come categoria da impegnare nel tempo libero e / o consumatori culturali, nell’ultimo decennio c’è stata una sorta di passaggio di testimone con il sostegno ad attività che vedono i giovani soggetti attivi. Insomma, meno iniziative dall’alto e più abilitazione e fluidità.

È esattamente la strada da percorrere: si tratta di un’evoluzione importante, le politiche giovanili non si occupano di una categoria demografica o sociale a sé, ma di una parte della società che sta crescendo con il mondo che cambia. Servono poi politiche coerenti con il territorio.

In che senso?

Bisogna rafforzare il senso di appartenenza alla comunità; i giovani devono sentire che si investe su di loro. Le politiche di prossimità hanno la loro importanza e non devono essere slegate dal resto. Come detto, non possiamo pensare ai giovani come categorie a compartimenti stagni, studente, lavoratore, sportivo, figlio… sono un’unica persona che racchiude tutti questi aspetti, che vanno fatti dialogare. Allo stesso modo serve un raccordo tra tutti i soggetti e interlocutori del territorio – tra terzo settore, scuola, realtà sociali e imprese- che permetta ai giovani di trovare le migliori condizioni per costruire un percorso di vita a vantaggio di tutti. Per il bene della comunità. Altrimenti il prezzo da pagare è alto, vedi fughe all’estero o Neet (persone che non studiano, non lavorano e non ricevono una formazione, ndr).

Guardando al calo demografico degli ultimi anni, lei ha spesso parlato di “degiovanimento” sottolineando come l’Italia non solo è, e continuerà ad essere, un “paese per vecchi”, ma vedrà le nuove generazioni indebolite nella loro tradizionale carica di soggetti portatori di cambiamento e di crescita.

Dobbiamo pensare che per tutta la storia dell’umanità e in cui l’Italia è cresciuta c’era una popolazione con un’ampia abbondanza di giovani – prima del boom economico gli under 30 erano oltre il 50% della popolazione, e quindi il loro peso, anche a livello elettorale, non era irrilevante. Ora non è più così: la media italiana è di 1,2 di figli per donna, più bassa della media europea che si attesta su 1,5 in Svezia e 1,8 in Francia, anche se, fortunatamente, da voi in Alto Adige la riduzione è meno drastica rispetto al resto del territorio nazionale. Ciò porta ad uno sbilanciamento delle risorse e del welfare verso le fasce di popolazione più anziane a discapito dell’innovazione e delle politiche attive, vedi ad es. politiche abitative. I giovani sentono di vivere in un contesto in cui la capacità di contare va ad indebolirsi e questo rischia di indurre un circolo vizioso perché scatta la fuga all’estero o si rimane dipendenti dalle famiglie di origine. Questo crea, a propria volta, disuguaglianze sociali perché non tutte le famiglie riescono a colmare le mancanze del sistema.

Cosa si può fare?

Serve un’inversione di tendenza. La natalità bassa crea squilibri sempre meno sostenibili, che pesano sui giovani e su tutta la società. In un contesto in cui il territorio si va a impoverire, anche l’immigrazione diventa rilevante: occorre essere attrattivi per i giovani e per altri che possono essere inclusi in prospettive di sviluppo future per non rendere gli squilibri demografici fondamentali.

Caterina Longo

Immagine in apertura: Alessandro Rosina

In collaborazione con Ufficio Politiche Giovanili della Provincia Autonoma di Bolzano

 

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