Il “Made in Italy” è la versione marketing del sovranismo?

Il sovranismo dovrebbe rivendicare “la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato” ma, nella versione in voga oggi, è innanzitutto la ricerca di un capro espiatorio “straniero” per aumentare il proprio consenso elettorale.
Immigrati e Unione Europea visti come il “nemico”, come la causa principale dei problemi locali.  Di recente, si è tenuta una manifestazione di Coldiretti a difesa del “Made in Italy” agricolo. Non casualmente è stato scelto il confine del Brennero come sede di una protesta organizzata “per fermare l’invasione di cibo straniero spacciato per italiano mentre l’Ue mette a rischio l’etichetta”. Ecco qui, “l’invasione straniera” e l’“Unione Europea” come i grandi nemici dell’Italia.
Appare  quindi legittimo domandarsi se anche la manifestazione organizzata da Coldiretti al Brennero possa essere letta in chiave di “consenso elettorale”. Da questo punto di vista, un comunicato emesso dal “Dachverband für Natur- und Umweltschutz in Südtirol” (Federazione Ambientalisti Alto Adige) fornisce un prezioso punto di partenza: “Il presidente della Coldiretti – si legge nel comunicato – chiede più trasparenza: basta con la pasta ‘Made in Italy’ se il grano viene dall’estero, basta con il prosciutto di Parma se la carne non proviene da quella regione. Applicato all’Alto Adige – si precisa –  significherebbe niente più speck altoatesino se la carne viene dall’estero o niente più latticini altoatesini se la panna e il latte sono importati. Una visione – conclude Josef Oberhofer, presidente della Federazione Ambientalisti – che segnerebbe la fine per l’industria dello speck altoatesino. Nel 2019, in Alto Adige sono stati macellati appena 6.740 suini, mentre sono stati importati oltre 2.000.000 suini già macellati e sezionati che sono noti per essere alla base dello speck a marchio “Speck Alto Adige”.
Ed è stata la stessa Coldiretti, proprio in occasione della manifestazione al Brennero, a denunciare “la scoperta di cosce di maiale danesi dirette a Modena che rischiano di diventare prosciutti italiani”

Un tradizionale tagliere sudtirolese (Foto Venti3)

Un cambio di prospettiva

Ecco, sono sufficienti un paio di informazioni in più per incominciare a cambiare la prospettiva. Siamo sicuri di volere che lo speck venga marchiato “Alto Adige/Südtirol ” solo nel caso in cui i maiali siano allevati in provincia di Bolzano? Chi vorrebbe gli allevamenti dei quasi due milioni di maiali necessari alla produzione di speck altoatesino vicino alla propria casa?  E quei prosciutti italiani prodotti con cosce di maiali danesi, a chi saranno venduti?
Per comprendere meglio il contesto abbiamo chiesto aiuto a Mauro Balboni, autore di numerosi testi sulla sicurezza alimentare e sull’impronta del cibo sull’ambiente e collaboratore di questa testata.  “Se i numeri forniti dal comunicato della Federazione Ambientalisti sono reali – premette – è evidente che l’allevamento e la macellazione di un tale numero di animali creerebbe enormi problemi al territorio, basti pensare ai liquami prodotti. In sintesi, se  il marchio Alto Adige fosse concesso solo ai maiali nati e macellati in Alto Adige, la produzione sarebbe costretta a ridimensionarsi notevolmente con conseguenti effetti economici”.
Ecco qui, a quanto pare se venissero accolte le proposte “protezionistiche” di Coldiretti, il settore della produzione alimentare sudtirolese ne risentirebbe pesantemente. “Dachverband für Natur- und Umweltschutz in Südtirol” non si è, però, limitata a puntare il dito sullo speck: “Yogurt, mozzarella e mascarpone  – viene sottolineato – sono prodotti solo in parte a base latte locale, più di un terzo del latte lavorato nelle cooperative altoatesine deriva da altrove e trasportato tramite autocisterne su strada”. Come afferma Hanspeter Staffler, direttore della Federazione: “Misure come quelle richieste dalla Coldiretti colpirebbero al cuore l’industria della trasformazione del latte e l’industria lattiero-casearia altoatesina andrebbe in tilt”,
A tutto questo, Balboni aggiunge un altro dettaglio: “Ma la certificazione del Made in Italy o in Alto Adige a che punto della filiera dovrebbe inserirsi?  E’ sufficiente che i capi di bestiame siano macellati in Alto Adige? O devono essere allevati o nati in provincia di Bolzano? Il nutrimento deve essere autoctono o può essere importato? Ricordo che in passato, i maiali dei contadini mangiavano scarti vegetali che ora non si possono più utilizzare, per cui i suini si ritroverebbero a mangiare soja proveniente dall’America del Sud o del Nord”. Domande non banali che implicano risposte complicate, proprio quelle che i sovranisti detestano.

I dati

I dati dell’import-export agricolo, invece, hanno un’importanza fondamentale per comprendere a pieno il quadro complessivo. Balboni ce ne anticipa qualcuno: “L’Italia importa derrate alimentari per 50 miliardi l’anno, e non si tratta solo di prodotti come caffè e banane che non crescono da noi. Importiamo soprattutto prodotti che sono le basi della produzione animale: soja e mais innanzitutto, ma anche bovini vivi, spalle e cosce di maiale, olio di palma, frumento tenero e duro. Quest’ultimo viene utilizzato per produrre la tipica pasta italiana e viene importato perché in Italia non se ne produce abbastanza”.
Come si legge nel report Ismea realizzato nell’ambito del “Programma Rete Rurale Nazionale: “un gruppo di venti prodotti distintivi del made in Italy, con quasi 28 miliardi di euro, rappresenta il 53% del valore totale dell’export agroalimentare nel 2021. I primi cinque in termini di valore sono vini in bottiglia, paste alimentari secche, tabacco lavorato, formaggi stagionati e prodotti della panetteria e pasticceria”. In sintesi il settore è trainato da prodotti lavorati per cui non esistono sufficienti materie prime di produzione italiana. Lo testimonia lo stesso report: “Nell’ultimo decennio le nostre importazioni agroalimentari hanno mostrato una crescita più elevata per i prodotti agricoli, cresciuti a un tasso del 3,4% medio annuo (16,6 miliardi di euro nel 2021), rispetto al’1,9% annuo dei trasformati (32,4 miliardi di euro nel 2021).
Per comprendere se questo sia un bene o un male, può essere utile aggiungere qualche notizia riguardante il maggiore esportatore di beni alimentari d’Europa (per valore): l’Olanda.
L’Italia, secondo l’Osservatorio dei mercati esteri Ice, ha esportato in Olanda prodotti dell’agricoltura, pesca e silvicoltura per un valore di 478 mln di euro nel 2021, ma ne ha importati, sempre dall’Olanda, per un 1.188,92 mln. Quasi il triplo. Un bilancio non dissimile riguarda lo scambio di prodotti alimentari. In questo settore, l’Italia nel 2021 ha esportato in Olanda per  1.202,28 mln di euro contro un import di 2.400,84 mln di euro. (il doppio)
Le ragioni del successo di un Paese piccolo che è stato costretto a rubare la terra al mare? Comprare a poco, trasformare e rivendere a tanto e, soprattutto, fortissimi investimenti nell’innovazione. “Gli olandesi  – precisa Balboni – hanno cambiato le basi della produzione del cibo, compresa quella della carne di maiale e del latte. Il bestiame cresce in stalle ipertecnologiche. E’ un’innovazione che riguarda tutto il settore, ortaggi compresi: serre in verticale, luci a led, droni, robot etc”.

Dati rapporto Ismea 

La tabella qui sopra mostra un dato inequivocabile, il “made in Italy”, la tradizione gastronomica, la passione per il cibo etc, contano molto meno del previsto dal punto di vista economico. Ai primi posti dell’export agroalimentare ci sono Usa e Paesi Bassi, probabilmente i due luoghi in cui si mangia peggio al mondo o che, comunque, non godono di ottima stampa riguardo alla loro tradizione gastronomia. Seguono Brasile, Germania e Cina, ma prima dell’Italia ci sono anche Francia e Spagna.

La realtà il marketing

“Se le richieste di Coldiretti fossero accolte e attuate,
l’Alto Adige sarebbe più povero di speck marchio “Alto Adige”,
ma più ricco di onestà e trasparenza”  Josef Oberhofer, presidente della Federazione Ambientalisti Alto Adige

 

L’analisi di Balboni appare impietosa: “In Italia spesso si combattono battaglie di retroguardia soprattutto riguardo a un settore agricolo sempre più marginale. Quanti sono oggi gli impiegati in agricoltura? il calo è drammatico, i lavoratori sono sempre più anziani, mentre in Italia, dagli anni Sessanta a ogg,i la percentuale di SAU (Superficie Agricola Utilizzata) si è dimezzata. L’Olanda ha fornito una risposta chiara e indicato quali sono le tendenze ormai inarrestabili, mentre negli ultimi 15 anni, in Italia si è consolidato il mito che il futuro dell’agricoltura stia nel ‘piccolo’, nel locale, nei sistemi di una volta. Siamo tutti d’accordo che dove funziona va benissimo, ma i numeri raccontano un’altra storia”,
Secondo Balboni: “la manifestazione di Coldiretti si inserisce in un filone consolidato in cui si accusa l’Europa per ogni problema come se i rappresentanti italiani non potessero influire sulle politiche agricole dell’UE. Forse avremmo problemi minori se gli eletti italiani fossero più presenti a Bruxelles, ma su questo e sul sovranismo alimentare che è cosa diversa dalla sovranità mi sono già espresso proprio su Alto Adige Innovazione.
Detto questo, ovviamente Coldiretti ha tutto il diritto di sostenere le produzioni dei suoi associati e sostenere che i prodotti italiani sono i più buoni degli altri, magari senza esagerare nel denigrare i prodotti stranieri”.
Le proteste degli agricoltori sono del tutto legittime se non sacrosante rispetto a costi di produzione e squilibrio tra i prezzi delle materie prime agricole e quelli al consumatore. Del tutto condivisibile anche la proposta che l’informazione al consumatore debba essere migliorata e  più trasparente: “Purtroppo – conclude Balboni – negli anni si è costruita una narrazione fragile che alla fine può persino risultare controproducente. Per esempio, grazie a precise politiche di marketing territoriale, chi consuma speck o mele altoatesine pensa ai masi e ai suoi contadini e non alla grande industria alimentare. Poi, però, scoppiano i casi come quelli delle mele in Val Venosta e il sistema va in tilt. Personalmente, spesso sono d’accordo con le analisi della Federazione Ambientalista altoatesina, dei Verdi in generale, meno rispetto alle soluzioni. Siamo un società post-agricola da oltre mezzo secolo, ma qualcuno fatica ancora a comprenderlo”.

Massimiliano Boschi

 

 

 

 

 

 

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