"La scuola bilingue? Solo vantaggi". Intervista al linguista Jan Casalicchio

Intervistare un esperto di linguistica mette in soggezione: scoverà sicuramente un sacco di errori nelle nostre parole. Ma Jan Casalicchio ci rassicura subito: “non si preoccupi, noi non giudichiamo gli usi linguistici, ma ci limitiamo a descriverli”. Studiare e “osservare” le lingue per capire cosa le unisce e cosa le differenzia è la passione di Casalicchio. Nato a Merano da famiglia bilingue, Casalicchio è cresciuto parlando perfettamente italiano e tedesco e anche un po’ di  ladino, grazie ai nonni  -“mia mamma è della Val Gardena”, ci racconta.  Dopo il dottorato in linguistica all’Università di Padova, Casalicchio ha lavorato come ricercatore in diverse Università da un capo all’altro d’Europa – da Palermo a Utrecht, in Olanda, passando per Costanza, Germania. Lo raggiungiamo al telefono a Siena, dove insegna all’Università Linguistica Generale e di Sociolinguistica.

Parlare di linguistica mette un po’ in soggezione, di cosa si occupa lei in particolare ?

In effetti è uno degli esami più temuti (ride). È una disciplina ampia, la grande domanda sullo sfondo è come funziona il linguaggio umano per capirne i principi, anche se non abbiamo un accesso diretto al linguaggio, è sempre un riflesso indiretto. Io mi occupo di linguistica generale con attenzione a lingue romanze, cioè quelle lingue che derivano dal latino, come l’italiano e il ladino e quindi i dialetti del Trentino e del Veneto. Mi sono sempre interessato alla storia delle lingue, in particolare mi ha sempre incuriosito il ladino come varietà linguistica, con i suoi suoni e la sintassi, e proprio al ladino ho dedicato la mia tesi magistrale.

Per studiare i dialetti italiani lei si è spinto fino in Argentina.

Si, sono stato coinvolto in un gruppo di ricerca molto ampio per un progetto sui dialetti italiani parlati nelle Americhe. Abbiamo studiato come cambia nel tempo il dialetto parlato da persone che abitano all’estero da 30-40 anni e hanno dovuto acquisire una nuova lingua. Abbiamo analizzato come la nuova lingua, in questo caso lo spagnolo, andava ad influire sulla parlate venete, friulane o piemontesi.

Cosa l’ha colpita di più da queste esperienze? 

In Argentina sono stato anche a Colonia Caroya, un paesino che era una colonia friulana e dove in passato per trovare lavoro bisognava parlare friulano, era praticamente obbligatorio. C’era tanta nostalgia tra gli abitanti, era stato aperto anche un bar che ricreava quello lasciato in patria… ho incontrato storie  di persone anziane, con tanti ricordi e sofferenze, in cui la lingua è legata a una vita intera. Quello che mi colpisce ogni volta è, comunque,  l’assoluta flessibilità della mente umana e la sua capacità di reazione: sono venuto anche a contatto con persone che parlano un curioso misto di spagnolo, italiano e dialetto, tutti fusi in un’unica lingua.

Del resto, si dice spesso che “l’unica patria è la lingua”. Nel Südtirol /Alto Adige quella della lingua è una questione che pesa ancora molto sulla bilancia delle decisioni politiche, a cominciare dalle difficoltà per una scuola veramente bilingue…

So che è un tema scottante, conosco sia dall’interno che dall’esterno l’Alto Adige. Un aspetto da considerare è che qui le decisioni linguistiche non sono affidate a linguisti,  ma a persone che hanno una visione diversa e non hanno conoscenza dei meccanismi linguistici. Si sa che introdurre una seconda lingua dalla nascita non confonde i bambini, ma anzi ha molti vantaggi sia a livello cognitivo che linguistico. Da un punto di vista linguistico interno si hanno solo dei benefici a parlare più lingue, anche tre o quattro contemporaneamente: il cervello dei bambini è spettacolare, riesce a gestire tantissimi dati.

Un’altra forte paura è che i bambini possano “perdere” la madrelingua a scuola.

In realtà basta avere una quantità di input sufficienti, circa il 30%  basta per sviluppare la lingua in modo ottimale. Un modello molto buono e sottovalutato è, a mio avviso, la scuola ladina paritaria, in cui le lezioni sono in parte in tedesco e in parte italiano, con risultati stupefacenti.

Tornando a questioni più generali: come si fa a studiare una cosa così sfuggente come la lingua? Non si può mettere sotto un microscopio o una provetta…

Io ho lavorato soprattutto  con inchieste sul campo, si va nel posto in cui viene parlata la varietà di dialetto che interessa e si incontrano persone che la parlano. Si cercano contatti personali e, a seconda del fenomeno che si vuole studiare, si fanno domande più o meno specifiche. Ad esempio, si chiede alla persona di raccontare la sua infanzia e si ottengono dati spontanei oppure si chiede di tradurre dall’ italiano al dialetto determinate frasi. Inoltre, è utile cercare di lavorare su varietà di dialetti simili, come ad esempio due dialetti ladini,  perché confrontare fenomeni quasi identici aiuta molto ad individuare le variazioni, anche le più piccole, che noi chiamiamo “microvariazioni”.

Come si fa ad essere sicuri che il campione sia rappresentativo?

Ci sono diversi orientamenti, uno quantitativo, che guarda ai grandi numeri, ed uno qualitativo, che poi è quello che seguo di più personalmente, perché mi permette di andare in profondità e confrontarmi con le persone dedicandoci del tempo. Con un campione grande questo non sarebbe possibile, e si dovrebbe optare per una raccolta dati online.

E per le lingue del passato?

In questo caso ci si affida a fonti scritte, come ad esempio testi pratici o lettere dei mercanti, ma per certi dialetti gli atti dei processi sono fondamentali perché vengono riportate le testimonianze in maniera più diretta – anche se bisogna tenere conto che si tratta comunque di trascrizioni, quindi di un parlato di riflesso.

Tornando ai nostri tempi: anche la comunicazione sui social media ha cambiato il modo di comunicare

Ci sono sviluppi recenti molto interessanti con i social media, perché, come noto, è uno scritto che riflette il parlato. In passato non era così, le lettere dei nostri nonni erano molto più formali. Oggi per i più giovani è sempre più difficile distinguere tra la scrittura delle relazioni e quella formale – e questo è un punto su cui fare attenzione. In Alto Adige, in particolare, sui social o nei rapporti personali non si scrive nel tedesco standard, ma in dialetto, che è più vicino ai suoni dell’oralità; il dialetto è la lingua dell’amicizia.

Caterina Longo

 

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