Là dove i nazionalismi esplodono. Sarajevo secondo Andrea Rizza Goldstein

Sarajevo evoca brutti ricordi da oltre un secolo. Segnata dall’attentato del 28 giugno 1914 che diede il via alla prima guerra mondiale e dagli anni di assedio durante la guerra in Bosnia tra il 1992 e il 1996, sembra vivere all’ombra di tragedie incombenti. Ma è davvero così? Andrea Rizza Goldstein* è abituato a non dare risposte semplici a domande complesse e si concede il tempo di una risposta lunga e articolata che parte da lontano, da quando Sarajevo era una sorta di Venezia dei Balcani. “Nel XVI secolo, la città ospitava il mercato in cui arrivavano le merci pregiate dall’Oriente. In quel periodo, per esempio, sorsero il quartiere cattolico, quello ebraico e quello greco e si potevano sentire parlare decine di lingue. E’ vero assomigliava a Venezia, ma non aveva ghetti. Purtroppo, quella Sarajevo finì nel 1699 quando fu incendiata e rasa al suolo da un’incursione condotta dal principe Eugenio di Savoia contro l’Impero ottomano”.

Andrea Rizza Goldstein

Furono le prime ceneri da cui risorse. Quasi due secoli dopo, nel 1878, finì sotto il dominio dell’impero austro ungarico, la città venne ricostruita e i cittadini “classificati”. “Fino al dominio austroungarico – continua Rizza Goldstein – i cittadini di Bosnia non erano definiti in base alla loro nazionalità o religione, furono gli austroungarici a definirli attraverso mappe etniche attribuendo un’etnia nazionale alle differenze religiose. I cattolici diventarono croati, gli ortodossi serbi e i mussulmani bosniaci. Da quel momento in poi, Sarajevo ha iniziato a subire ogni esplosione delle questioni nazionali”.
Al termine del primo conflitto mondiale, il 1º dicembre 1918 venne fondato il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e il 6 gennaio 1929 nacque il regno di Jugoslavia e le 33 contee etnicamente definite in cui era suddiviso il territorio vennero soppresse e sostituite da 9 regioni abitate da più gruppi etnici che prendevano il nome dai fiumi che le attraversavano. Sarajevo venne nominata capitale della regione della Drina, ma il regno di Jugoslavia non durò a lungo. Nel 1945 al termine della seconda guerra mondiale, la monarchia venne abolita e nacque la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, nome che mantenne fino al 1963 quando venne denominata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. In quegli anni Sarajevo si trasformò in un importante centro industriale e nel 1984 ospitò le Olimpiadi Invernali. Otto anni dopo, però, le questioni nazionali tornarono a bussare alle porte di Sarajevo. il 6 aprile 1992 la città venne accerchiata dalle forze serbe. L’assedio durò quasi quattro anni e gli effetti non sono ancora svaniti del tutto.

Il “Cimitero” di Kovaći: al centro il mausoleo dedicato a Alija Izetbegović (foto Giuliano Geri)

Sarajevo oggi
“La guerra degli anni Novanta ha ovviamente determinato un prima e un dopo – precisa Rizza Goldstein – . Undicimila morti, l’’80% delle infrastrutture della città danneggiate e 44 mesi di bombardamenti massicci lasciano un’eredità pesantissima. Non va dimenticato che Sarajevo è la città più ricostruita della Bosnia e ogni ricostruzione è una protesi, qualcosa di diverso da quello che c’era prima con cui occorre fare i conti quotidianamente”.
La guerra degli anni Novanta ha cambiato la città e anche i suoi cittadini, non solo a causa della gigantesca perdita di vite umane. “Dopo la guerra, Sarajevo è stata ripopolata da persone provenienti da altre zone della Bosnia che non avevano nulla a che vedere con Sarajevo. Una popolazione che non ha ricordi della città di prima della guerra. E’ un elemento fondamentale per comprendere l’accettazione della chiamata etnico nazionale che ha fatto seguito al conflitto”.
Ma Rizza sottolinea anche un altro aspetto fondamentale della nascita della Sarajevo di oggi: “E’ andato bene a tutti spazzare via tutto quello che puzzava di socialismo. Della Jugoslavia di Tito è stato buttato il bambino con l’acqua sporca e si è preferito puntare sull’etnonazionalismo che andava bene a quasi tutti. Poi, si è morti e si è ucciso e in nome dell’interesse nazionale e dopo la guerra si sono saldate al potere élite politiche nazionaliste e speculatori che hanno portato al disastro economico. Questo ha scatenato le proteste popolari a partire dal 2014. I salari bassi, (lo stipendio medio è di 500 euro) e la disoccupazione sopra al 30% hanno finito per spazzare via i partiti etnico nazionali che avevano governato la città. Ora vedremo cosa succederà. Le questioni relative alla Repubblica Sprska (la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina) gli effetti politici della guerra in Ucraina e a Gaza sono importanti ma difficili da analizzare. Gli equilibri si stanno incrinando, l’Europa sta tentando di sfruttare il momento per ‘normalizzare’ la Bosnia ma è davvero difficile comprendere come andrà a finire”.
Nel frattempo, Sarajevo sembra sempre più lontana dal resto d’Europa. All’aeroporto di Sarajevo atterranno cinque voli al giorno provenienti da Istanbul e sole due da Vienna nonostante la fortissima presenza di profughi bosniaci nella capitale austriaca. Attualmente, dall’Italia non sono previsti voli diretti. “Mancano le infrastrutture. La rete ferroviaria è pessima e le strade sono messe male. Arrivare a Sarajevo è complicato anche in auto. L’autostrada arriva fino a Slavonski Brod, in Croazia, poi occorre proseguire lungo una strada statale”.
Questo, almeno, la rende una delle poche capitali europee esente dall’over tourism. “A dire il vero a Sarajevo non mancano i turisti. Esiste una sorta di turismo identitario legato al conflitto degli anni Novanta. A questo scopo è stato anche costruito il Museo del Genocidio. Una pessima operazione che tenta di potenziare l’identità bosniaca in chiave anti serba”.
Inevitabilmente, oggi Sarajevo è una città molto diversa da quello che era trent’anni fa, anche per i copiosi finanziamenti giunti dal mondo arabo. “I vecchi abitanti di Sarajevo faticano a riconoscere la loro città. Ora fioriscono i minareti e il dress code islamico è molto più visibile e le ragazze in minigonna sono una rarità. Ricordo che Erdogan ha chiuso la sua campagna elettorale a Sarajevo. Oggi la Sarajevo dei mussulmani è chiusa e strutturata, guidata da clan famigliari che esercitano un forte controllo politico e religioso”. Tutto questo, però, non impedisce ad Andrea Rizza Goldstein di essere ancora innamorato della capitale bosniaca: “E’ vero, non è più la città che ho conosciuto, ma il fuoco eterno voluto da Tito dopo la liberazione del 1945 brucia ancora. Rappresenta una bella storia che sopravvive con fatica in alcune zone e in alcuni cittadini di Sarajevo. O chissà, forse è solo nostalgia…”.

Massimiliano Boschi

*Andrea Rizza Goldstein. dal 2010 al 2017 coordinatore del progetto Adopt Srebrenica per la Fondazione Alexander Langer Stiftung, dal 2018 lavora per Arci e Arciragazzi Bolzano nel team di formazione dei progetti di politische Bildung Promemoria_Auschwitz, Campi della Legalità, Ultima fermata Srebrenica, Anni di Piombo.

 

 

Immagine di apertura: la “Vijećnica” biblioteca di Sarajevo (foto Giuliano Geri).

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