Le mele del paradiso e quelle della Val Venosta
Mauro Balboni, laureato in Agraria, esperto di ricerca e sviluppo e di legislazione internazionale nel settore agrochimico, è autore di “Pianeta Mangiato” (2017) e “Il Pianeta dei Frigoriferi (2022), testi sui temi del cibo e della sostenibilità.
Come accennato nella prima parte di questo articolo, i toni allarmistici della Süddeutsche Zeitung originano dal rapporto dell’Umweltinstitut di München. La metodologia e soprattutto la forma comunicativa usate nel rapporto potrebbero essere oggetto di un confronto tecnico interessante, ma temo che chi legge si perderebbe ben presto nei dettagli. Mi limito a ricordare le convinzioni di base sulle quali gli attivisti operano e cioè: la sfiducia nella capacità della legislazione europea (peraltro la più comprensiva ed evoluta al mondo in questo settore) di assicurare una valutazione trasparente e un uso realmente sicuro dei pesticidi; la convinzione che la presenza di sostanze chimiche nelle matrici ambientali anche se in tracce e ben al di sotto dei limiti legali sia sempre e comunque “prova” o comunque sospetto di tossicità; in generale, una certa propensione allarmistica che trova facile veicolo di diffusione nella chemofobia, e nella poca conoscenza dei fatti, diffusa nella popolazione. Sono contrapposizioni che infiammano il dibattito su cibo e agricoltura da decenni e non li risolveremo con questo articolo.
Risulta più interessante cercare di inquadrare bene cosa esattamente voglia ottenere l’Umweltinstitut. Ce lo dicono loro stessi: vogliono che l’Unione Europea si converta al 100% all’agricoltura biologica. E qui è dove io penso che la frutticoltura sudtirolese sia finita in un gioco che si gioca ben al di fuori dei confini provinciali. In un certo senso, come si suole dire: «L’Umweltinstitut parla a Bolzano perché Berlino e Bruxelles comprendano». E per farlo ha trovato (direi: gli è stato quasi regalato) un casus belli fenomenale: il decantato paesaggio e le mele rinomate che in Germania tutti, consumatori/turisti, bene conoscono e che invece…
Combinazione perfetta per attirare attenzione! O pensate forse che la Süddeutsche Zeitung avrebbe sbattuto in prima pagina il radicchio trevigiano o le carciofaie di chissà dove?
L‘Umweltinstitut scrive che la Provincia di Bolzano dovrebbe adottare il “faro luminoso” (cit.) del comune anti pesticidi di Malles su tutta la superficie provinciale. Personalmente sarei “agronomicamente” interessato alla cosa: finalmente un test probante per sapere se il bio funziona davvero su una monocoltura concentrata su vasta scala in un intero territorio, o no. E quali cambiamenti nell’intera filiera alimentare (dalla campagna al consumatore) renderebbe necessari. Ma, fari luminosi o meno, la strada per un’Europa 100% bio sembra allontanarsi sempre più dai sogni degli attivisti. La Germania – maggiore mercato bio al dettaglio – è ferma al 10% (come l’Alto Adige); l’Italia circa al 15% (le maggiori percentuali di superficie agricola certificata bio, oltre il 20%, sono in Sicilia e Calabria). La UE in totale è sempre sotto il 10%. Da notare che la Germania ha da anni un piano nazionale per arrivare al 20%, finora mai nemmeno avvicinato.
Bruxelles (cioè là dove si muovono le leve dei finanziamenti agricoli) lascia intendere chissà cosa ma poi ondeggia. La Commissione UE scrive nel documento “Farm to Fork”, quello che dovrebbe indirizzare le politiche agroalimentari future, che vuole portare il bio al 25%. Ma gli strumenti esatti per farlo rimangono nel limbo. Nelle settimane scorse, una revisione della Direttiva sull’Uso Sostenibile dei pesticidi che chiedeva una drastica e rapida riduzione delle quantità entro il 2030 è stata rimandata a Bruxelles, come irricevibile, da una maggioranza degli stati membri. Da quello che ne so, è praticamente defunta. Il commento prevalente: «se passa, l’agricoltura europea chiude».
L’offerta di bio cresce a livello di grande distribuzione alimentare organizzata (gdo), in questo modo cambiando radicalmente pelle: da rivoluzione a segmentazione di mercato della grande industria alimentare. Ma molti segnali dicono che la crescita arriverà prima o poi ad un plateau. La gdo francese Carrefour ha abbandonato il piano di aprire 200 punti vendita dedicati al bio: non è andata oltre i 20. In Svizzera, tra i paesi in testa alle classifiche mondiali per spesa pro-capite di alimenti bio, nel 2021 una solida maggioranza di cittadini ha rigettato la Volksinitiative che voleva imporre il bio come unica forma di agricoltura ammessa dalla legge sia per la produzione domestica che quella importata.
Ho l’impressione che i tempi si stiano chiudendo per l’obiettivo politico di un’Europa 100% bio, e anche per molto meno di quella percentuale. Non sembra il momento migliore per esperimenti. Dopo decenni di incidenza decrescente della spesa alimentare sul bilancio delle famiglie europee, dal 2004 i prezzi di base sono in crescita. La guerra alle porte di casa tra due dei maggiori produttori agroalimentari globali ha aggiunto insicurezza. Miliardi di persone che 30 anni fa dovevano accontentarsi delle briciole oggi consumano quasi tante calorie edibili quanto noi: la Cina è vicina e, soprattutto, oggi compra tutto quello che vuole comprare sul mercato mondiale del cibo. Immanente su tutto questo il convitato di pietra: il cambiamento climatico, che nell’Europa meridionale colpirà duro anche le campagne e renderà obsoleti tanto il rassicurante marketing istituzionale della natura turistico-frutticola quanto l’ideologizzazione della piccola fattoria di Nonna Papera quale via di salvezza.
Intendiamoci: 18.000 ettari di meleti intensivi, contigui e super-produttivi, in Alto Adige o dovunque, non sono e non saranno mai “naturnah” e non sono necessariamente l’unico tipo di agricoltura che possiamo fare. Come detto, molti punti sollevati dall’Umweltinstitut meritano considerazione. Mi delude il fatto che nelle loro raccomandazioni “dimentichino” cose che sono in realtà ben presenti nel dibattito sul cibo del futuro anche se indigeribili per la loro formazione ideologica: il cambiamento climatico e con quali colture e tecnologie agrarie affrontarlo; il miglioramento genetico (ovviamente loro sono ideologicamente contrari all’editing genetico anche se non prevede alcuna inserzione di geni estranei alla coltura); la digitalizzazione e il precision farming come mezzo per razionalizzare/ minimizzare ulteriormente l’uso di chimica. Qua non si tratta di sostituire un fungicida sintetico “cattivo” – anche se la regolamentazione ha dimostrato che non lo è affatto – con uno non sintetico e quindi, secondo il bio, “ecologico” (?) ma di ripensare il nostro approccio al territorio, la nostra intera filiera alimentare e forse il nostro intero stile di consumo.
Cosa resterà del caso delle mele venostane? Solo il tempo lo dirà. Forse niente, forse solo una puntata di una disputa che va avanti da decenni su binari incomunicabili. Per il momento sospetto che – come ogni volta che gli attivisti innescano casi di “food scare” (in inglese: paura alimentare) – ci siano genitori tedeschi che, allarmati dalla mela rivestita di veleno, stanno stornando la prossima vacanza sudtirolese e si aggirano frenetiche tra gli scaffali evitando le venefiche mele bolzanine alla ricerca delle buone mele trentine, tedesche, francesi, polacche, cilene ecc. E per qualche tempo qualcuno crederà pure che, a differenza delle nostre (e sì, coglievo mele lì in zona da studente già negli anni ’70…) le mele degli altri siano prodotte in giardini dell’Eden dove una benefica Terra Madre ci dona spontaneamente i propri frutti a km zero, senza tecnologia e senza costi. Perfette nel gusto e nell’aspetto e soprattutto sempre e dovunque a sufficienza per tutti.
Mauro Balboni
Qui la prima parte dell’articolo