
Martha Jiménez da Città del Messico alla Consulta per l'immigrazione: "Privilegiamo quel che ci unisce"
Bolzano. “Sembra assurdo, ma all’inizio mi hanno dovuto spiegare come funzionava una finestra basculante o le tapparelle, che non avevo mai visto. Sono cose scontatissime, ma che a Città del Messico non ci sono”. Sorride Martha Jiménez mentre racconta del suo primo impatto con l’Alto Adige, avvenuto ormai più di vent’anni fa. Insegnante di spagnolo al liceo Carducci di Bolzano e al Gandhi di Merano, consulente, esperta in comunicazione ed educazione interculturale e di educazione linguistica inclusiva -e moltissimo ancora- Jiménez è stata nominata per la seconda volta come membro della Consulta provinciale per l’integrazione nel febbraio scorso. “Spesso mi chiedono se sono iscritta a un partito, ma in realtà ho sempre cercato di fare qualcosa per le persone sul piano individuale, senza per forza riconoscermi sotto un cappello: credo che con le piccole azioni prima o poi si possa arrivare da qualche parte”. A livello personale, di traguardi ne ha raggiunti non pochi Martha Jiménez, che è arrivata a Bressanone dopo un Praktikum in un’agenzia locale e la laurea in Information Design con specializzazione in ricerca antropologica a Città del Messico (a cui sono seguiti un Master of Art e Culture Management e una laurea Magistrale in Lingue e Letterature europee – oltre a numerose altre formazioni). Prima c’è stata, però, un’esperienza di Erasmus a Bielefeld, in Germania. “Avevo scelto di frequentare un corso di fotografia e all’inizio credevo di cavarmela senza sapere il tedesco, ma non è stato così. Ho scoperto però di avere una fascinazione per le lingue e ho imparato il tedesco perché mi piace proprio” scandisce Jiménez, che, oltre al tedesco, parla perfettamente anche inglese, francese e ovviamente italiano. “Quando sono arrivata a Bressanone mi sembrava un posto meraviglioso: la natura, il fiume, la mancanza di traffico… l’ho detto tante volte, il primo contatto con la società altoatesina è stato positivo, tramite mio suocero sono entrata in contatto con il mondo del volontariato e con tante persone sensibili, che cercavano di parlarmi nella mia lingua o in inglese e avevano la pazienza di spiegarmi”, ricorda.
Un po’ diverso è stato, invece, l’impatto con il mondo del lavoro “ero neolaureata ed ero rimasta incinta di mia figlia, essere mamma in un posto nuovo è faticosissimo. Con la mia laurea non potevo fare molto oltre la grafica e il video editing. In quel periodo ho fatto di tutto, anche traduzioni”, ricorda. Poi scatta qualcosa “mi sono resa conto che, soprattutto se sei donna e straniera, è difficile farti conoscere. L’ho vissuto in prima persona, certo parliamo di 20 anni fa, ma le persone si rivolgevano sempre al mio (ora ex) marito, anche quando parlavano di me. Eppure ero lì davanti a loro. Questo trattamento verso la donna straniera, o la donna del sud o la donna immigrata, un po’ mi infastidiva, allora facevo presente in modo gentile che avevo degli studi, magari parlavo più lingue di chi mi stava davanti e avevo molto da offrire”. Proprio grazie alla conoscenza delle lingue, e al suo essere donna, Martha Jiménez inizia a dare una mano al suocero quando si tratta di interfacciarsi con donne pakistane che hanno bisogno di traduzioni per documenti o informazioni dall’inglese. Presto l’attività di mediazione si allarga anche a famiglie albanesi, polacche e ispano-americane.
Da queste esperienze Jiménez elabora, in seguito, il formato “Open City Museum”, un modo nuovo di lavorare nella progettazione culturale e artistica, che ha toccato, nel 2011, anche il Museo civico di Chiusa, coinvolgendo e raccontando dei nuovi cittadini: migranti stagionali, giovani di seconda generazione, coppie miste e famiglie. “Volevamo avvicinare chi non era mai entrato al museo e far raccontare loro qualcosa. Ad esempio, abbiamo creato un laboratorio con le ragazze migranti in cui si ricercavano collegamenti tra certi motivi nei ricami del tesoro di Loreto, conservato al museo, e l’hennè delle donne indiane, che spiegavano la bellezza di queste forme. Insomma, hanno parlato di una cosa che apparentemente non gli apparteneva”. Quello che interessava a Jiménez era “tirare fuori quello che abbiamo in comune e ci unisce, nonostante le differenze”.
Un Leitmotiv che ha accompagnato anche diversi altri suoi progetti– come la ricerca condotta per Eurac Research nel 2019 sui ragazzi migranti di seconda generazione e le difficoltà e opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. “Abbiamo constatato che la differenza per questi ragazzi e ragazze sta nel fatto che chi non è del posto ha meno contatti, ad esempio per fare un’esperienza di praticantato ed essere assunto in futuro. Anche certi tratti fisionomici marcatamente stranieri possono essere un ostacolo, all’inizio. Ma quando poi si conoscono le persone, si aprono anche delle opportunità. Per questo credo sia importante che ci sia una persona di contatto, un tutor che introduca i giovani, magari il genitore del compagno che gioca nella stessa squadra di calcio o i vicini di casa…serve una sorta di rappresentanza che aiuta gli altri a fidarsi”. Alla fine, il discorso torna sempre su quanto sia importante conoscere le persone, l’essere visti, ma anche sull’accesso alle informazioni. Anche questo è un aspetto che Jiménez conosce per esperienza personale: “Io vengo da un contesto molto umile, mio padre è stato contadino, primo di nove figli, a casa mia certe cose non esistevano. Abbiamo fatto le scuole grazie alle borse di studio… bisognava studiare, studiare, studiare per arrivare all’università. Vedi, quando hai genitori che capiscono fino a un certo punto a volte non hai il giusto indirizzamento e le scelte professionali dipendono dal caso, dalle persone che incontri” sottolinea Jiménez e continua “per questo quando lavoro con i ragazzi chiedo sempre: come sei arrivato alla tua scelta? Tante volte è perché il miglior amico è andato lì o perché è la prima cosa che ha sentito. C’è molta poca conoscenza di sé stessi. Dico sempre andate, parlate, chiedete, non vergognatevi!”.
Una conoscenza che però dovrebbe andare oltre gli stereotipi: “Sono convinta che non serva molto fare degli incontri multiculturali in cui ognuno porta il proprio cibo e canta le proprie canzoni: non è vera conoscenza, perché non conosci la persona, conosci uno stereotipo, che viene rinforzato, come magari il fatto che a me come messicana piace mangiare piccante e ti dico ¡Ándale! ¡Ándale! e tu sei contento…ma non mi stai conoscendo veramente, io non sono quello”.
E rispetto all’impegno nella Consulta, conclude “abbiamo una pura funzione consultiva, ma credo che dobbiamo arrivare a trovare modi e spazi di ascolto per chi prende le decisioni e progetta – e dobbiamo far sentire la nostra voce. Sappiamo che tanti immigrati fanno lavori che gli altri non vogliono fare, fanno molto per la società, pagano le tasse etc., ma non li vediamo. L’abbiamo detto mille e mille volte, ma non ha effetto: forse dobbiamo trovare parole nuove e un nuovo linguaggio”.
Caterina Longo
Immagine in apertura: Martha Jiménez