Dai legni "che hanno sentito la voce della neve" di Adolf Vallazza a Sven Sachsalber, le mostre di aprile
Una selezione di quattro mostre da tenere d’occhio in questo inizio di primavera a rilento, tra antichi manoscritti e mondi tecnologici, artisti che celebrano i cento anni, come Adolf Vallazza, e artisti scomparsi troppo presto, come Sven Sachsalber, ma comunque capaci di guardare oltre i confini, artistici e mentali, del Südtirol Alto Adige.
“I legni che sono stati leccati da bestie solitarie / e hanno sentito la voce della neve e del vento, / adesso hanno preso l’impronta di un uomo che gli ha cambiato vita / senza togliergli di dosso la storia che hanno / e tutto il silenzio delle montagne”. Così descriveva lo scenografo Tonino Guerra le sculture di Adolf Vallazza (Ortisei, 1924). Guerra è solo uno dei tantissimi personaggi -dal regista Roman Polanski al fotografo Berengo Gardin fino al presidente Pertini- che lo scultore gardenese ha attratto nella sua orbita nel corso della sua lunga carriera. A Vallazza, che nel settembre prossimo festeggia i 100 anni, Museion dedica la mostra personale “Adolf Vallazza 100” nello spazio di Passage, al pianoterra. Partendo da una grande scultura astratta della Collezione intitolata “Vogel” (uccello), lo spazio asettico del museo si popola di un racconto tra i misteriosi totem, menhir e altre sculture astratte e monumentali dell’artista, esposte per la prima volta insieme.
È un fascino silenzioso, magnetico, quasi sacro, quello trasmesso dalle imponenti sculture di Vallazza, che con la sua arte ha saputo elevarsi dalla tradizione dell’intaglio e dell’artigianato artistico gardenese -quella delle statue di santi e madonne, per intenderci- per sviluppare un suo linguaggio personale, creando un’arte atemporale, attorno a cui il tempo è invitato “a danzare”, come spiega Bart van der Heide, direttore di Museion. Un altro aspetto di straordinaria modernità dell’opera di Adolf Vallazza è l’attenzione al materiale, verso cui l’artista ha sempre dimostrato un pioneristico approccio ecologico, e un’attenzione al riuso. “Il mio motto è ridurre, ridurre…” dice spesso l’artista, che fin dagli anni ’60 ha utilizzato legni di recupero – cirmolo, pino e abete- provenienti dai fienili e dalle case dismesse della sua terra, dando così nuova vita al paesaggio in cui vive (ingresso libero, fino al 02.06.2024).
Lasciamo i paesaggi naturali della Val Gardena per i mondi tecnologici di Hans Glauber, con le immagini della mostra “Dalla città meccanica” al museo della Macchina da scrivere di Parcines. Conosciuto soprattutto per essere il co-fondatore dell’Ökoinstitut Südtirol e i dei Toblacher Gespräche, il sociologo Hans Glauber (1933-2008) è stato anche un artista e fotografo. I lavori della serie “Dalla città meccanica”, esposti a Parcines sono nati tra il 1963 e il 1973 e prendono le mosse da fotografie di elementi meccanici delle macchine da scrivere e calcolatrici come quelle prodotte dall’Olivetti, azienda di cui Glauber è stato consulente.
Hans Glauber, un’opera della “Città meccanica”. Foto courtesy Museion
Le fotografie, che provengono dalla collezione Museion, sono state sottoposte dall’artista ad un complesso processo di solarizzazione, riconversione e collage. Nascono così immagini di strutture ed entità enigmatiche, spesso reminiscenti di architetture minacciose e visioni urbane oscure. “Le opere di Glauber si possono interpretare come rappresentazione, nello spirito di Adorno e Horkheimer, di un mondo che si va facendo sempre più ostile all’essere umano” sottolinea il curatore della mostra Andreas Hapkemeyer (inaugurazione: 05 aprile, fino al 18 agosto 2024, info).
Rimaniamo nella parte occidentale della provincia, ma nella conca meranese, dove per la mostra “Imagine Worlds” a Merano Arte viene esposto il manoscritto originale del “Cantare dei Nibelungi“, risalente al 1300 ca. Il manoscritto, conservato alla Biblioteca di Stato di Berlino, torna così in Alto Adige – nel 1400 si trovava, infatti, nella biblioteca privata del nobile Antonius von Annenberg di Laces, uno dei più importanti collezionisti di libri del tempo. Il “Cantare dei Nibelunghi” è il più importante poema epico della letteratura tedesca medievale.
Il manoscritto “Cantare dei Nibelungi”, Staatsbibliothek zu Berlin – Preußischer Kulturbesitz; Abteilung Handschriften und Historische Drucke; Signatur: Ms. germ. fol. 474
Composto intorno al 1200 a partire da diverse leggende orali, il poema comprende due diversi livelli narrativi: un primo nucleo racconta le gesta eroiche di Sigfrido, come l’uccisione del drago e la conquista di un tesoro di inestimabile valore, e ha radici in saghe scandinave dell’alto medioevo; un secondo affronta invece una serie di vicende storiche legate alla caduta dei Burgundi. L’esposizione del manoscritto offre alla casa d’arte di Merano l’occasione per interrogarsi sui concetti di mito, eroe e costruzioni di genere, mentre l’Accademia di Merano propone un ciclo di conferenze, convegni accademici e incontri volti a approfondire le diverse interpretazioni storiche e ricezioni del Cantare dei Nibelunghi (fino al 19 maggio).
“Ho bisogno ancora di tempo”, veduta della mostra di Sven Sachsalber negli spazi di barth a Bressanone. Foto Jürgen Eheim
Di lui rimangono in mente le sue performance assurde, ai limiti della resistenza fisica, come la celebre azione al Palais de Tokyio di Parigi, in cui cercò letteralmente un ago in pagliaio per 48 ore. O quella in cui rimase in camera da letto con una mucca per un giorno intero, o ancora quella in cui circumnavigò con una barca a remi il campanile intorno al Lago di Resia per 24 ore, con la sola forza delle braccia. Parliamo dell’artista Sven Sachsalber, prematuramente scomparso nel 2020, all’età di 33 anni, nel pieno della sua fioritura artistica. Cresciuto in Alta Val Venosta (Laudes), Sachsalber aveva studiato al Royal College of Art di Londra dal 2010 al 2013 per poi trasferirsi a New York, dove aveva iniziato ad affermarsi. “Ho bisogno ancora di tempo” è il titolo – commovente e poetico- della mostra che Ivo Barth dedica a Sven Sachsalber, di cui era amico e collezionista. Ospitata nella sede dell’azienda a Bressanone, l’esposizione offre una panoramica sull’opera dell’artista, partendo dai lavori della collezione privata di Ivo Barth, integrati con prestiti della famiglia Sachsalber, di altri collezionisti e collezioniste privati, di amiche e amici altoatesini. “Il confronto con la Heimat, la terra d’origine, l’area alpina e le sue tradizioni (cattoliche), il legame con il paesaggio e la ricerca di un proprio luogo di appartenenza sono tutti temi presenti nei suoi lavori. La ricerca di una propria posizione nella storia dell’arte lo accompagnava sempre e spesso l’affrontava con umorismo e ironia, ma anche con l’intelligenza di essere in grado di comprendere un sistema, di decodificarlo e di riuscire a inserirvisi” spiegano la curatrice della mostra Lisa Mazza e il curatore Walter Angonese. E’ parte della mostra anche il primo report sull’opera dell’artista, frutto di un approfondito progetto di ricerca svolto da BAU e conclusosi lo scorso anno (barth, Via Julius Durst 38, 39042 Bressanone. La visita alla mostra è guidata e gratuita. Per prenotare scrivere a ivo(at)barth.it. Fino al 27 luglio)
Caterina Longo
Immagine in apertura: Courtesy Archivio Adolf Vallazza. Foto: Gianni Berengo Gardin