Il dibattito sulla movida selvaggia dimostra solo una cosa: non siamo un Paese per giovani
E’ difficile rispettare il distanziamento sociale quando si è perso il senso della misura. Da questo punto di vista, la fase 2 è persino peggio della 1. Erano i primi giorni della fase 2 «made in South Tyrol» e i prati del Talvera stavano lentamente tornando ad essere frequentate dagli amanti delle passeggiate, quando una signora sudtirolese, passando davanti al parco giochi già affollato di genitori e bambini è sbottata: «Perché il parco giochi per bambini è aperto e lo skatepark a fianco è ancora chiuso?».
Ecco, la prima puntata di Alto Adige Doc post lockdown nasce dal tentativo di dare una risposta a questa signora. Forse non c’è nulla di strano, gli skateboarder non sono considerati una categoria da tutelare e quindi nessuno si è preoccupato di loro nelle prime giornate di uscita dal lockdown. Nei giorni successivi, però, una serie di avvenimenti ha inevitabilmente fatto pensare che quella chiusura altro non fosse che uno degli innumerevoli esempi di come l’Italia non sia un paese per giovani.
Il senso della misura
I fatti in sintesi: dopo essere stati chiusi in casa per due mesi per un virus che li vedeva tra le categorie meno a rischio, i giovani italiani hanno osato bersi un bicchiere e farsi un aperitivo all’aperto. Allontanati per oltre sessanta giorni da fidanzati e fidanzate, scuola, università e attività sportive, i suddetti non hanno invaso le strade urlando come pazzi e pomiciando come se non ci fosse un domani, si sono limitati a ordinare da bere e si sono messi a chiacchierare. Un abominio che ha scatenato la ferma risposta del Sistema Geriatrico Familistico Italiano, che pur non cessando di dare il cattivo esempio, si è affrettato a elargire «buoni consigli».
Direttori di quotidiani hanno intinto le penne nei loro consunti calamai per bacchettare i comportamenti di questi «giovani incoscienti» mentre l’ex primario del Pronto Soccorso dell’ospedale di Torino si è affrettato a comunicare il suo compassato punto di vista ai media nazionali: «I giovani che fanno l’aperitivo in piazza sono degli assassini». Due fidanzati di Pavia hanno persino osato abbracciarsi. Indossavano la mascherina, ma la multa da 400 euro è piovuta implacabile. I quotidiani nazionali, conoscendo bene l’età media di chi li legge, hanno reagito di conseguenza e si sono lanciati in una campagna contro la cosiddetta «movida selvaggia». Se lo digitate su Google vi vengono fuori 185.000 risultati. Nella gran parte dei casi, a illustrazione degli articoli sono state pubblicate alcune tipiche fotografie da «movida selvaggia»: gente che beve e chiacchiera al chiar di luna.
Come noto, il termine movida nasce in Spagna alla fine degli anni Settanta per indicare la Movida madrileña che esplose spontaneamente nella capitale spagnola al termine del regime dittatoriale di Francisco Franco. Un movimento che celebrava la riacquistata libertà, proprio come oggi. Ma Süd-Tirol ist nicht Spanien e soprattutto Bolzano non è Madrid. Il sindaco del capoluogo altoatesino, classe 1946, si è precipitato a firmare un’ordinanza che fermasse tutta questo inattesa espressione di vitalità: «Da venerdì 29 maggio a martedì 2 giugno compreso dalle 20.00 alle 02.00 è fatto divieto di consumo alimenti e bevande in prossimità di esercizi pubblici». Il «Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica», riunitosi appositamente, ha motivato la decisione spiegando che «sussiste il rischio che la curva dei contagi possa aumentare e che ciò potrebbe avere la conseguenza di dover imporre nuovamente confinamenti sociali all’intera città».
La versione di Marina
Insomma, se si il virus tornerà a diffondersi sarà colpa dei giovani che frequentano piazza Erbe, non degli assembramenti davanti ai supermercati o ai negozi di telefonia, non negli abbracci tra i nonni e i nipoti, non nei luoghi di lavoro invisibili alla polizia municipale. La signora che passeggiava lungo i Prati del Talvera ha però bisogno di una risposta più seria e articolata e per trovarla ho chiacchierato con Marina Multari, referente del «Centro Giovani Connection» di Bressanone. Una persona giovane che si occupa di giovani, ma anche una «persona a rischio» a causa di un deficit immunitario figlio di una malattia cronica. Una dei tanti che non può permettersi di essere troppo tollerante nei confronti di comportamenti poco responsabili. «Per dire qualcosa di sensato – premette – dovremmo comprendere cosa intendiamo con la parola giovani. Quando faccio i corsi di aggiornamento viene presa in considerazione la fascia di età tra i 14 e 20, ma più spesso ci si riferisce a tutti quelli che hanno tra i 16 e i 40 anni. Io partirei da quelli che sono il mio riferimento al Centro giovani: ragazzi tra i 15 e i 17 anni. Rispetto a questi posso solo dire che sono stati fantastici. Essendo a conoscenza dei miei problemi di salute, mi hanno chiesto consigli sul come relazionarsi con i loro nonni e li ho sempre sentiti molto attenti agli altri».
Nei due mesi di lockdown, Marina Multari non ha potuto incontrare i «suoi» ragazzi, ma li ha sentiti spesso al telefono, un rapporto che non si è interrotto nemmeno ora: «Rispetto alla fase 2, alcuni hanno ammesso che non hanno ben compreso quali siano le limitazioni, questo ha spinto molti a restare ancora in casa o a uscire in gruppi ristretti. Rispetto al periodo di quarantena, la cosa che ha pesato di più è stata sicuramente l’impossibilità di incontrare fidanzati e fidanzate, come sappiamo tutti, le coppie di adolescenti hanno un bisogno fisico di stare insieme».
Purtroppo, però, per settimane il governo ha concesso incontri solo all’interno del contesto famigliare, gli amori giovanili, quelli che ricordiamo nostalgicamente come i più “estremi” non hanno meritato alcuna considerazione. «Credo che il problema vada affrontato nel suo complesso – prosegue – molti ragazzi non hanno potuto andare a scuola dove solitamente si svolge gran parte della vita extrafamiliare, non hanno potuto svolgere attività sportiva e, ovviamente, non hanno potuto nemmeno uscire con gli amici. Questo insieme di cose ha reso la quarantena molto pesante».
Chi si occupa dei giovani
Chi se ne è preoccupato? Il discorso si può allargare, Marina Multari ha 26 anni e di conseguenza conosce bene anche le difficoltà a cui sono andati incontro i suoi coetanei. «Potrei raccontare le odissee degli studenti fuori sede o di chi si trovava in Erasmus e doveva rientrare a casa. Chi non studiava non è messo molto meglio, molti si sono trovati senza lavoro. Notoriamente i contratti per i giovani sono quasi tutti precari e anche chi faceva il cameriere per pagarsi gli studi si è trovato senza reddito». In sintesi, migliaia di ragazzi si sono così trovati tagliati fuori da quasi tutto, narrazione mediatica compresa. I giovani sono tornati al centro del dibattito pubblico solo ora, come protagonisti della «movida selvaggia». «Sinceramente – conclude – non mi meraviglia. E’ facilissimo scegliere i giovani come capro espiatorio, non fanno causa a nessuno e non sono riuniti in associazioni di categoria. E’ sempre stato così».
Ecco, ora la risposta alla signora che camminava lungo i Prati del Talvera è più articolata e precisa. Spero che il «Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica» non se la prenda se invece di concedergli spazio per una replica, chiudo la prima puntata post lockdown con il più grande esperto di «tempo perduto» degli ultimi 150 anni, Marcel Proust: «Dei gesti compiuti negli anni dell’adolescenza, quasi non ve n’è uno che più tardi non vorremmo sopprimere, mentre ciò che invece dovremmo rimpiangere è di non possedere più la spontaneità che ce li faceva compiere. Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme a quello del resto della società, ma l’adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa». (All’ombra delle fanciulle in fiore).
Massimiliano Boschi
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