Rilevare le nanoplastiche, pericolo invisibile e minaccia per la salute. La ricerca di Giulia Elli

Innovazione. Negli ultimi settant’anni, la plastica ha conquistato ogni angolo della nostra vita quotidiana, diventando il materiale dominante in molte applicazioni, grazie alla sua praticità e resistenza. Tuttavia, questa stessa versatilità ha un costo ambientale altissimo. La maggior parte delle plastiche, infatti, non viene riciclata, ma finisce incenerita o dispersa, degradandosi lentamente in micro e nanoplastiche. Queste minuscole particelle, invisibili a occhio nudo, si sono infiltrate ovunque: nei mari, nei fiumi, nel suolo, e persino nella nostra dieta. Date le loro dimensioni, le nanoplastiche vengono facilmente ingerite da fauna e flora e tendono a interagire con altri contaminanti pericolosi presenti nell’ambiente, amplificando così il danno ecologico e potenzialmente anche i rischi per la salute umana. Rilevare queste particelle nell’ambiente è diventata una priorità scientifica. Tuttavia, i metodi di analisi attuali sono lunghi, complessi e costosi.
In questo contesto si inserisce la ricerca della dottoressa Giulia Elli, una giovane ricercatrice che ha sviluppato nuovi sensori elettrochimici per la rilevazione delle nanoplastiche, soprattutto in ambienti marini. Originaria di Varese e con un percorso di studi internazionale, la ricercatrice Elli si è distinta per il suo lavoro di dottorato presso l’Università di Bolzano. Il suo progetto ha suscitato l’interesse del pubblico anche grazie alla sua partecipazione a uno Science Slam, una competizione dove la scienza incontra l’intrattenimento, e dove è riuscita a raccontare il problema delle nanoplastiche e la sua ricerca in modo semplice, divertente e coinvolgente.

Qual è l’obiettivo principale della sua ricerca?

L’obiettivo è sviluppare un metodo di rilevamento delle nanoplastiche che sia veloce, economico e pratico. I metodi attuali sono complessi e poco praticabili fuori dal laboratorio. I sensori elettrochimici che stiamo sviluppando rappresentano una svolta perché permettono di rilevare le nanoplastiche attraverso la misurazione di una corrente elettrica.

Cos’è esattamente un sensore elettrochimico e come funziona nel rilevare le nanoplastiche?

Il sensore elettrochimico è un piccolo dispositivo in grado di misurare la variazione della corrente elettrica in presenza di certe sostanze di interesse, nel nostro caso le nanoplastiche. In pratica, quando una soluzione contenente nanoplastiche viene applicata sul sensore, si registra un aumento della corrente, proporzionale alla concentrazione di nanoplastiche. Abbiamo inoltre aggiunto molecole di bioriconoscimento specifiche, come peptidi, che permettono al sensore di essere ancora più selettivo. Questo significa che il nostro dispositivo è in grado di rilevare in modo specifico le nanoplastiche, distinguendole da altre particelle presenti nel campione.

 Giulia Elli durante la sua presentazione al Science SLAM

Quali sono i prossimi passi per questo progetto?

Ora che abbiamo sviluppato un sensore sensibile alle nanoplastiche, ci stiamo concentrando sul migliorare la selettività e l’efficacia, testandolo su diversi tipi di nanoplastiche in vari ambienti. A lungo termine, speriamo che questa tecnologia possa essere utilizzata da aziende e enti pubblici per monitorare meglio l’inquinamento da nanoplastiche e per prendere misure più concrete nella protezione dei nostri ecosistemi.

Quali sono i principali pericoli delle nanoplastiche per l’ambiente e per gli esseri viventi?

Il pericolo maggiore è che le nanoplastiche non solo vengono ingerite dagli organismi viventi, ma tendono ad attrarre altri contaminanti pericolosi, come i metalli pesanti. La loro dimensione infinitesimale permette a queste particelle di viaggiare facilmente negli ecosistemi e di entrare nella catena alimentare. Studi recenti le hanno rilevate in alimenti come il pesce, ma anche in acqua potabile e persino in bevande come il latte e la birra. Il rischio è quindi che le persone ingeriscano nanoplastiche inconsapevolmente, insieme alle sostanze tossiche che queste hanno assorbito.

Come possiamo contribuire, nel nostro piccolo, a ridurre le nanoplastiche?

Un grande contributo può venire dalla riduzione dell’uso di plastiche monouso, come bottiglie e sacchetti. La maggior parte delle nanoplastiche deriva infatti dalla degradazione di oggetti in plastica più grandi. Inoltre, sarebbe utile preferire prodotti privi di microplastiche, come certi cosmetici o prodotti per la cura personale. Con un po’ più di attenzione nelle nostre scelte quotidiane possiamo ridurre la quantità di plastica che si disperde nell’ambiente e, di conseguenza, la presenza di nanoplastiche. Ridurre l’uso di plastica non è solo una scelta ecologica, è anche un modo per proteggere la nostra salute. Anche se il problema è complesso e richiede un impegno collettivo, ognuno di noi può fare la propria parte.

Chiara Caobelli

Immagine in apertura: Foto di  Julita da Pixabay

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