Overtourism? Servono visioni politiche rigorose, immaginifiche e innovative. Parola a Bertram Niessen

“Turisti ovunque” : ne sa qualcosa chi ha provato a spostarsi (13,9 milioni di italiani secondo Federalberghi)  durante il ponte dello scorso 25 aprile, in cui ha debuttato anche il ticket d’ingresso per Venezia – pagato, secondo i primi dati, da 22mila persone sulle oltre 106mila che nella giornata del 26 aprile avrebbero visitato la città lagunare. Venezia è solo il caso più eclatante e mediaticamente esposto dell’overtourism (sovraffollamento turistico), fenomeno complesso che ha cambiato e sta cambiando a ritmi sempre più accelerati il modo in cui viviamo le città, lo spazio pubblico, il lavoro e le relazioni, in breve: la vita. Di questo e molto ancora si è sempre occupato, con sguardo lucido e tagliente, Bertram Niessen. Ricercatore, progettista, docente, autore, Niessen è Presidente e Direttore Scientifico di cheFare, agenzia per la trasformazione culturale. Il suo libro “Abitare il vortice”, uscito un anno fa, cattura tutta la complessità e le sfide di fronte a cui si trovano le città del dopo Covid. Cominciamo dai vortici urbani per immergerci poi nei flussi del discorso sull’overtoursim, per cui, dice Niessen, occorrono “visioni politiche rigorose e al tempo stesso aperte, immaginifiche e innovative”.

Nel suo libro lei paragona le città a specchi d’acqua, che, “sono agitate da spinte e controspinte economiche e da trasformazioni sociali e politiche, che ne agitano la superficie senza sosta, creando vortici spaventosi e seducenti”.

Le suggestioni urbane che danno il titolo alle tre sezioni del libro sono “le città degli specchi”, “le città delle crepe” e “le città dei vortici”. Le città dei vortici sono le città della complessità in movimento che provano a trovare soluzioni nuove alle crisi urbane, talvolta attualizzando pratiche storiche, altre volte ideandone di nuove.

Come si trova il modo di abitare questo vortice?

Per me qui ha un ruolo fondamentale la cultura, non tanto intesa come forma di consumo o di consolazione quanto come insieme di pratiche, linguaggi, organizzazioni e persone che costruisco nuovi significati attorno ai luoghi in cui viviamo. Non si tratta di vaghi appelli alla costruzione di comunità, quanto piuttosto di una serie molto concreta di pratiche, progetti, politiche, forme di istituzioni e di economie. Si tratta di migliaia di casi in tutto il mondo, alcuni sono tratteggiati nel libro, molti altri li realizziamo o raccontiamo quotidianamente con cheFare. Dalla cultura -che è idee, visioni del mondo, estetiche, valori- prendono forma le scelte delle persone e delle collettività, e quindi le economie e le azioni concrete.

Uno dei fattori che riguarda trasversalmente le nostre città è il fenomeno dell’overtourism e della conseguente gentrificazione e airbnbization. A proposito di city branding lei evidenzia come spesso si tenda a “mettere in scena gli elementi identitari in maniera consapevole e artificiale” di un territorio. Un elemento che trovo molto interessante, scrivendole da Bolzano, che di fatto ha deciso, molti anni fa, di proporsi come “Città del Mercatino di Natale”

Il cortocircuito tra city branding (i meccanismi di marketing rivolti alle città) e overtourism (la monocultura turistica che trasforma i tessuti produttivi locali) è diffuso ormai ad ogni latitudine e in luoghi di ogni dimensione. Come molte dinamiche che riguardano i territori, quando arriva se ne guardano solo gli aspetti positivi: aumento dei turisti e delle tasse di soggiorno; seconde case affittate su Airbnb; aumento delle vendite dei prodotti locali; articoli sui giornali; la sensazione di trovarsi al centro del mondo.

Bertram Niessen. Foto courtesy cheFare

Ma non ci sono solo aspetti positivi.

Esatto, quello che poi inevitabilmente succede è che gli effetti negativi ci mettono pochissimo tempo dal fare timidamente capolino a diventare veri e propri incubi urbani: il mercato degli affitti schizza alle stelle e giovani, anziani e persone non ricche si devono spostare fuori città per vivere; gli spazi pubblici vengono devoluti ai privati; un certo numero di attività tradizionali prospera venendo messa sottovuoto, mentre le altre scompaiono perché non riescono a stare al passo. Ma, soprattutto, i luoghi diventano la base temporanea dei “city user” (coloro che li usano per un giorno, un weekend o una settimana) e perdono di vista i propri abitanti.

Come si contrasta, realisticamente, l’overtourism? Ha esempi virtuosi?

Per contrastare questa tendenza non ci sono ricette pronte, ma tante sperimentazioni in giro per l’Europa che indicano la strada per politiche locali virtuose. Innanzitutto, è fondamentale non demonizzare il turismo, che è cruciale sia sul piano economico che su quello della diversità sociale e culturale: bisogna piuttosto trovare nuove forme di turismo sostenibile. Molte città si stanno concentrando sulle questioni abitative, costruendo alternative etiche a Airbnb (Barcellona), vietando l’acquisto di case per scopi turistici (Amsterdam), ampliando il patrimonio di edilizia residenziale pubblica a disposizione (Berlino e Vienna). In molti luoghi si stanno costruendo corsie differenziate di accesso ai servizi per cittadini e city users, un tema da affrontare con attenzione, perché rischia di aumentare le disuguaglianze per alcuni gruppi di poveri.

Si parla anche di destagionalizzazione…

Un altro approccio importante è quello che va verso le molte forme di turismo lento (o paziente): approcci diffusi che mirano alla destagionalizzazione e al coinvolgimento dei turisti nella vita dei luoghi in modo integrato e non predatorio, quasi come se fossero degli “abitanti temporanei”. È un approccio interessante (sperimentato dal punto di vista dell’ospitalità anche in alcuni luoghi dell’ Alto Adige) che può essere sperimentato riguardo ad aspetti diversi: da quelli legati alla vita all’aria aperta al patrimonio culturale, passando per l’enogastronomia e le esperienze musicali e teatrali.

In un suo intervento lei scrive che “Il ruolo della società civile su un territorio è come quello degli alberi su una collina: le sue radici affondano nel terreno e impediscono alle ondate del turismo di massa di straripare e trascinare via tutto” (artribune). Che ruolo può avere, concretamente, la società civile, quando si parla di overtourism?

In questi approcci, la società civile può assumere un ruolo fondamentale. I variegatissimi mondi della cooperazione, dell’associazionismo e del volontariato costruiscono legami tra persone e territorio in un’ottica diversa da quella del profit. Per questo motivo possono essere mediatori importanti anche i nuovi abitanti del turismo sostenibile. A patto che vengano coinvolti in processi di co-progettazione di politiche dedicate che non li releghino a meri fornitori di servizi conto terzi. Si tratta, in altri termini, di far emergere e valorizzare l’intelligenza collettiva dei territori per costruire ponti, relazioni e – perché no – alleanze con degli abitanti temporanei. Per farlo però c’è bisogno di visioni politiche rigorose e al tempo stesso aperte, immaginifiche e innovative.

Guardando al presente e al futuro, lei parla della necessità di ripensare il rapporto tra umano e animale, umano e non umano e soprattutto al ruolo dell’arte. L’arte ci salverà?

Non credo che niente nessuno possa salvarci se non noi stessi. Di fronte alle gigantesche sfide sistemiche che abbiamo di fronte -solo per citarne tre: il cambiamento climatico, il moltiplicarsi dei conflitti, le nuove disuguaglianze- c’è bisogno di costruire le condizioni per cui individui, gruppi e società inizino a funzionare in modo diverso. A differenza di quello che è stato teorizzato – e praticato – negli ultimi 40 anni, queste condizioni non risiedono solo nell’economia, ma stanno in gran parte nella cultura. È la cultura (e l’arte) che orienta i valori, le azioni, le convinzioni, i cambiamenti. Ed è lì che dobbiamo cercare risposte, nell’immaginazione di nuovi mondi, di nuove relazioni causa-effetto. Per cui, ad esempio, il superamento della falsa dicotomia natura-cultura (e umano-animale) è centrale per immaginare risposte al cambiamento climatico. Trovare nuove ragioni per il pacifismo è fondamentale per evitare la moltiplicazione delle guerre. Immaginare mondi meno ingiusti – e mettere in discussione i privilegi – è necessario per contrastare le disuguaglianze. E così via.

Caterina Longo

 

Immagine in apertura: foto di Julita da Pixabay

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