Biomedical and Chemical Engineering: le scoperte di Petra Cazzanelli, dall'Alto Adige a Rochester (USA)

Medicina rigenerativa, biologia dell’RNA e meccano-biologia: quando si leggono i campi di ricerca di Petra Cazzanelli ci si immagina provette e microscopi e cose molto complicate da capire per la maggior parte delle persone. La giovane ricercatrice di origini altoatesine – nata a Merano e cresciuta a Laives- è appena tornata dagli Stati Uniti dove ha conseguito, nel dicembre scorso, un PhD (dottorato di ricerca) presso il Rochester Institute of Technology. Prima dell’esperienza negli States, Petra Cazzanelli ha fatto esperienze come ricercatrice in Austria, Spagna, Svizzera e Canada “per imparare di più ho sempre cercato di uscire dalla mia comfort zone, sia dal punto di vista lavorativo che privato” – ci racconta quando cerchiamo di farci spiegare, nelle parole più semplici possibili, di cosa si è occupata nei suoi studi.
Scopriamo così che le sue ricerche riguardano, in realtà, un fenomeno che tocca tantissime persone nella quotidianità: il mal di schiena. Il tema del suo PhD  è infatti la degenerazione del disco intervertebrale e del mal di schiena lombare. “Circa l’80% della popolazione ne soffre per un lungo o breve periodo, con conseguenze pesanti sulla qualità della vita, oltre che sul lavoro e l’economia” spiega la ricercatrice.

Dottoressa, a proposito di dolore, siamo vicini ad un tema molto caldo – se si pensa anche al dramma che sta vivendo l’America con gli oppioidi , su cui è uscita di recente anche una toccante serie su Netflix …

Esatto, negli Stati Uniti è un grande problema. Per quanto riguarda il mal di schiena, nei casi più estremi c’è l’intervento chirurgico, altrimenti in genere si dice di fare fisioterapia o si prescrivono antidolorifici, ma il loro consumo eccessivo non aiuta.

In genere si sa che il mal di schiena è dovuto ad una cattiva postura, tipo le lunghe ore seduti alla scrivania…

Certo, ma ci sono anche altri fattori. Con l’età il disco è soggetto ad una progressiva degenerazione ed è normale avere dei dolori… a provocarli è l’infiammazione e/o lo schiacciamento del disco. Con il nostro team di ricerca abbiamo studiato i tessuti e le cellule infiammate, lavorando a stretto contatto con i chirurghi. In particolare, ci siamo concentrate sui segnali di infiammazione nella cellula ed il loro interagire con il microRNA, piccole molecole che regolano il comportamento delle cellule.

Si fa complicata…
In parole semplici, abbiamo studiato cosa accade in una cellula infiammata per capire come dovrebbero agire dei farmaci per essere efficaci. Abbiamo quindi scoperto che le medicine dovrebbero inibire uno specifico microRNA che è troppo presente nelle cellule e peggiora l’infiammazione, spingendo la cellula quasi ad “ammalarsi”, anche a  livello meccano-biologico.

E questa è una nuova scoperta…che presto si tradurrà in un farmaco?

Gli studi sul cancro sono già orientati in questo senso da qualche tempo, mentre nel campo dei dolori lombari sono stata la prima, insieme alla mia professoressa Karin Wuertz-Kozak, a effettuare queste ricerche. Si tratta naturalmente di una fase preclinica, a cui seguiranno i test sugli animali e quindi entrano in gioco le case farmaceutiche con gli studi clinici. Insomma, è un piccolo passo, ma è così che funziona la ricerca…

Guardando ai suoi studi: qual è il percorso che porta dall’Alto Adige ai laboratori di Rochester …?

Da piccola mi sono sempre interessata per la natura e gli animali… per il resto è un lungo percorso iniziato con gli studi a Vienna, dopo il liceo: all’inizio volevo studiare scienze dell’alimentazione, poi ho capito che la biotecnologia è più affascinante. Come biologa ho poi iniziato ad appassionarmi alla biologia molecolare e alla medicina studiando i processi di invecchiamento delle cellule e da lì sono arrivata al PhD negli Stati Uniti, in un campo che è definito Biomedical and Chemical Engineering: è un settore molto vasto e interessante perché ho lavorato a stretto contatto con ingegneri e chirurghi. È molto sfidante perché ti rendi conto che ognuno parla un suo linguaggio, a seconda della formazione che ha alle spalle, e così impari la comunicazione e la diversità, sia sul lavoro che nella vita privata.

In che senso?

Per me in questi anni andare al lavoro ogni giorno era come fare il giro del mondo; quando ci incontravamo a cena con i colleghi e le colleghe al tavolo sedevano persone da almeno sette paesi diversi, dall’Iran a Taiwan dalla Colombia all’Arabia Saudita. Si impara a confrontarsi e a sviluppare una cultura del dialogo. È una cosa che già mi manca qui…

Ma avrebbe potuto fare le ricerche che ha fatto se non in Italia almeno in Europa?

In Europa ci sono dei buoni centri ricerca, e certo sarei potuta rimanere, ma studiare negli Stati Uniti fa una grande differenza. Comunque il progetto del mio PhD, iniziato a Zurigo, è stato finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero (Schweizerische Nationalfond.

Ed è stato sufficiente a sostenerla?

Riuscivo a viverci a Rochester, ma quello che si riceve è poco se paragonato alle moltissime ore di lavoro; inoltre abbiamo costruito dal nulla un laboratorio e seguito tutto il processo di knowledge transfer, esperienza appassionante, ma anche intensa.

Come donna si è mai sentita discriminata?

No, non ho mai trovato ostacoli; negli Stati Uniti il 60% delle persone che studiano sono donne – certo nelle materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) siamo al 25%. Io ho 31 anni e vedo che per la mia generazione molte differenze si sono appianate. È importante cercare di togliere paure e timori di fronte alle materie scientifiche fin dalla scuola, per far emergere i talenti.

Certo spesso i problemi per le donne arrivano dopo gli studi, con l’inserimento nel mondo del lavoro, parlo di retribuzione, possibilità di carriera e figli…

Si, anche nel mio settore è dura, se volessi rimanere nella ricerca ci vorrebbero ancora altri dieci anni e molti trasferimenti nel mondo per avere assegnata una cattedra e raggiungere un minimo di stabilità economica… per questo ho deciso di trovare un posto nell’industria, anche se mi piace molto l’insegnamento, è una grande gioia vedere giovani ricercatrici e ricercatori formarsi.

Cosa ha imparato più di tutto dagli anni negli Stati Uniti?

A risolvere problemi – per il 90% del tempo devi saperti confrontare con l’imprevisto. Mi piace ricordare un detto di Marie Curie “Nothing in life is to be feared, it is only to be understood” (niente nella vita va temuto, dev’essere solamente compreso). Impari ad affrontare la complessità e l’incoerenza, a guardare cosa c’è dietro le cose: un atteggiamento che ti porti dietro anche nella vita. Credo che questo tempo che viviamo sia così polarizzato perché le persone non capiscono quanto sia complessa la realtà.

 

Caterina Longo

 

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