Unibz e i ricercatori in fuga
Tradizionalmente, in Alto Adige si rivolge grande attenzione alla toponomastica, un tema a cui, nei mesi passati, si è dedicato anche “Sheldon.Studio” di Bolzano che, fortunatamente, non si è preoccupato di lingue e traduzioni, ma ha compiuto un’approfondita ricerca sul “sessismo” della toponomastica. Tra i vari aspetti analizzati, la ricerca ha evidenziato come in Italia solo il 6,6% delle strade dei capoluoghi di regione italiani siano dedicate alle donne e che, escludendo quelle intitolate alle sante, la percentuale scende al 3,9%”. Un risultato che ha attirato l’attenzione dei media nazionali e a cui Donata Columbro del quotidiano “La Stampa” ha dedicato un lungo articolo partendo dalle considerazioni di Matteo Moretti “designer, fondatore di Sheldon.studio” e, ai tempi (il 22 marzo scorso) ricercatore della facoltà di Design e Arti dell’Università di Bolzano.
La precisazione cronologica è necessaria perché Moretti, premiato con il Data Journalism Award 2015, l’European Design Award 2016 e 2017 e “Ambasciatore del design italiano nel mondo” nel 2018, non è più un ricercatore di unibz. Attualmente è Professore Associato presso il Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica dell’Università degli Studi di Sassari che ha sede ad Alghero.
I motivi che lo hanno spinto a lasciare l’Alto Adige per la Sardegna sono diversi, ma non dissimili da quelli che hanno spinto altri ricercatori e ricercatrici di successo di unibz a lasciare Bolzano per proseguire i propri lavori in atenei più “accoglienti”. Interpellato al riguardo, Moretti si è limitato a ricordare che ha insegnato, come docente a contratto, e svolto attività di ricerca, a Bolzano per 15 anni: “Ci abito da 13 anni, mia figlia è nata a Bolzano, ma non sono riuscito a diventare professore a unibz. Sarei rimasto volentieri, ma non me ne è stata data la possibilità”. Purtroppo, Moretti non è un caso isolato, altri ricercatori cresciuti all’interno dell’Università di Bolzano non sono riusciti a rimanere. “Rifiutati” da un “sistema” che non appare particolarmente lungimirante.
Matteo Moretti, designer e fondatore di Sheldon.Studio, è professore associato all’Università di Sassari
Alvise Mattozzi, per esempio, è stato tra i creatori del corso di Laurea Magistrale in “Eco Social Design” che ha riscosso uno straordinario successo, non solo al confronto di altri corsi di laurea creati di recente a Bolzano. Anche lui ha preferito cambiare aria: “L’esperienza a Bolzano è stata positiva – premette – ma non posso nascondere che unibz si sia mostrata incapace di coltivare le proprie risorse interne, in particolare a design. La vicenda di Moretti, per esempio, è incredibile”.
Passando a considerazioni più personali, Mattozzi precisa di aver lasciato unibz per il Politecnico di Torino perché ha trovato “il progetto di Polito più interessante”, ma non nasconde che sia stata una scelta sofferta: “Sono molto contento dell’esperienza a Design, in particolare della Laurea Magistrale in Eco-social design che attira studenti da tutto il mondo e i rapporti con lo staff e i docenti di Design sono stati sempre molto buoni. Diverso è il discorso nei riguardi dell’Ateneo di Bolzano. Ho preso tardi l’abilitazione, per ragioni legate alla interdisciplinarità del mio percorso – cosa penalizzata dal sistema universitario italiano, ma fondamentale per poter lavorare a Design. Avevo l’esigenza di poter sviluppare anche una ricerca più canonica, ma è pressoché impossibile a Bolzano perché si finisce per essere stracarichi di impegni didattici. In altre università si ha la possibilità di fare un semestre di didattica e uno di ricerca, ma non a Design, non a Bolzano. Questo fa sì che ci si trovi davanti ad una scelta difficile: o ci si dedica al tedesco o ci si dedica alla ricerca e si pubblicano gli articoli necessari per l’abilitazione. Riguardo all’apprendimento linguistico, avevo chiesto di avere un semestre libero dalla didattica per motivi di ricerca e per studiare il tedesco in Germania dove l’apprendimento poteva essere più rapido, ma mi è stato negato. In sintesi, i ricercatori non sono penalizzati solo nel caso volessero proseguire la propria carriera a unibz, ma, vista le difficoltà nel fare ricerca e nel riuscire a pubblicare, si rischia di vedersi penalizzata la carriera anche nel caso si desideri proseguire altrove. Ho come l’impressione che per mantenere certe quote etniche, si ostacoli la trasformazione di ricercatori in professori, pratica che altrove è quasi automatica”.
Al di là del passato, Mattozzi oggi può confrontare unibz e Polito senza risentimenti e le sue conclusioni non hanno bisogno di interpretazioni: “Riguardo la mia scelta personale, Polito mi ha presentato un progetto forte da portare a termine in un contesto più trasparente. Solo per fare un altro esempio, al Politecnico votiamo per il Rettore che viene eletto in base ai suoi programmi. A Bolzano non è così, unibz è meno aperta e trasparente. A Torino respiro l’idea di lavorare a un progetto in comune, a Bolzano le decisioni calavano dall’alto”. Evidentemente, la tanto sbandierata “autonomia” viene utilizzata solo quando fa comodo all’Amministrazione Provinciale. Quando si tratta di concederla, si ragiona molto diversamente.
Le critiche e le osservazioni di Mattozzi sono state ripetute anche da altre ricercatrici e ricercatori, presenti e passati di unibz. Tutti faticano a comprendere i motivi per cui i vincoli linguistici valgano solo per i ricercatori – che sono cresciuti e hanno svolto ricerca all’interno dell’ateneo altoatesino – e non per i docenti che provengono da altre università italiane e soprattutto straniere. È il meccanismo che spiega il riferimento alle “quote etniche” di Mattozzi. Non solo, il rigido bilanciamento linguistico del corpo docente dell’ateneo costringe inevitabilmente a valutazioni di corto respiro, perché quando ci si ritrova con troppi docenti di un determinato gruppo linguistico, si prova a mettere una toppa si corre a bilanciare la “proporzione” finendo per penalizzare ogni visione di lungo termine.
Un sistema poco razionale che fa sì che per riuscire a conservare i ricercatori, anche i più bravi, occorra una congiuntura astrale di difficilissima realizzazione. Ma un ulteriore aspetto complica la situazione, capita spesso che i docenti associati di unibz provengano dalle Fachhochschulen tedesche, istituzioni che notoriamente non fanno ricerca. Vengono assunti, quindi, docenti che spesso non conoscono i meccanismi per ottenere i fondi necessari e non hanno pubblicazioni a curriculum, che, però, sono obbligatorie per l’abilitazione a docente dei ricercatori. Riassumendo, alle storture del sistema universitario nazionale, si sommano quelle locali e pure quelle europee.
Le occasioni perse
Roberta Raffaetà, ora docente associata all’Università Ca’ Foscari di Venezia, conosce molto bene i meccanismi di cui sopra e anche lei ricorda piacevolmente gli anni passati nella facoltà di Design e Arti a Bolzano: “Ho iniziato a collaborare con unibz nel 2015 e ho preso l’assegno di ricerca un paio di anni dopo. È stata un’esperienza piacevole e positiva, unibz ha formati di insegnamento innovativi e ho apprezzato la vivacità intellettuale di molti colleghi, gli spazi e le strutture di alto livello”.
Nonostante tutto questo, ha deciso di andarsene, portando con sé un grosso finanziamento per la ricerca: “Purtroppo, non vedevo garanzie per il mio futuro a unibz e ho cercato una posizione di ricerca in un altro luogo e l’ho trovata. Dopo aver vinto un grosso finanziamento europeo da 1,5 milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca, ho valutato dove andare e mi sono confrontata con i vertici di unibz perché la mia esperienza era stata positiva, Il Rettore ha cercato di venirmi incontro perché unibz non ha mai ottenuto questo finanziamento prestigioso, ma mi è sembrato avesse le mani legate. Le altre università con cui sono entrata in contatto, invece, hanno colto l’occasione anche grazie a una struttura più snella e ricettiva che ha compreso l’importanza del finanziamento e del progetto. Altrove ho ricevuto proposte che mi hanno garantito le condizioni adatte per poter lavorare e alla fine ho accettato quella dell’Università Cà Foscari di Venezia. Purtroppo, unibz non mi ha fornito le stesse garanzie anche dal punto di vista amministrativo e tutto questo, sommato a una certa rigidità relativa agli impegni didattici, mi ha indirizzato altrove”.
Rispetto al contesto, Roberta Raffaetà conferma le problematiche già emerse: “Io non ho problemi con il trilinguismo, ma ho notato che le chiamate dall’esterno sono fatte spesso senza criteri scientifici adeguati e credo che questo non permetta di portare a frutto il potenziale della facoltà di Design, che più che altro era concentrato nei precari. Posso confermare che io, Alvise Mattozzi, Matteo Moretti, Valeria Burgio (anche lei costretta a lasciare unibz) e altri, formavamo un gruppo di ricercatori precari che non è stato assolutamente valorizzato e che, disperdendosi, credo abbia svuotato la facoltà di un potenziale importante”.
Al di là delle varie esperienze personali, sembra emergere una domanda fondamentale. La Libera Università di Bolzano vuole formare professionalità per il territorio altoatesino o trasformarsi compiutamente in una università? Ma, anche decidesse per la prima ipotesi, i risultati ottenuti sono soddisfacenti?
Riguardo alla seconda ipotesi, lasciamo le conclusioni alle parole di Roberta Raffaetà: “Al di là della mia esperienza personale, a unibz mi è capitato di essere valutata da docenti che non avevano un profilo scientifico adeguato, ma avevano comunque il potere di decidere il futuro della carriera mia e di altri ricercatori. A unibz ti fanno capire che siamo tutti utili, ma che nessuno è necessario. Può starci, ma credo manchino le necessarie competenze per promuovere il merito e non è un caso che molti ricercatori se ne siano andati”.
Massimiliano Boschi