Vita da ebrei in fuga. L’odissea della famiglia Zwerdling: dall’Ucraina agli Usa passando per Merano
Ternopil è una città dell’Ucraina occidentale che non è stata risparmiata dal conflitto in corso. Prima ha accolto i rifugiati in fuga dalle città vicine, poi ha finito per essere bombardata come il resto del Paese. Ma per Ternopil non è una novità: a metà del Seicento, in occasione della rivolta di Chmel’nyc’kyj, fu saccheggiata e bruciata mentre la maggior parte dei suoi abitanti di religione ebraica venne trucidata. Nel 1675 venne conquistata dai turchi, successivamente, dopo essere stata saccheggiata dai tartari, finì sotto il dominio russo. Nel 1772 i russi vennero sostituiti dall’Impero austriaco che governò la città fino alla fine della prima guerra mondiale. Poi altre battaglie e altre guerre.
In sintesi, i cittadini di Ternopil non hanno mai avuto una vita facile e tranquilla, oggi come ieri. Non può meravigliare, quindi, che Norbert Zwerdling, cittadino di religione ebraica nato nel 1890 a Ternopil ed ivi residente, avesse deciso di cercare una vita più tranquilla e di emigrare a Merano. Nel 1928 risiedeva in Passeggiata Regina Margherita 3, dove aveva aperto una “Casa di moda”. E proprio lì conobbe Fejge (Fanny), nata a Kalisz (Polonia) nel 1893. Norbert e Fejge si sposarono nel 1931 e nel 1932 nacque Alexander,
Come raccontano Sabine Mayr e Joachim Innerhofer in “Quando la patria uccide – Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige“ (Raetia 2017), la famiglia Zwerdling abitò prima in via Karl Wolf, appena fuori dal centro di Merano e poi poco lontano, in via Alpini. Gli affari andavano bene, la casa di moda impiegava diverse dipendenti, ma l’antisemitismo con cui gli Zwerdling erano abituati a convivere da sempre incominciò a diventare sempre più violento. Nel settembre del 1938 il regime fascista promulgò le leggi razziali, mentre nel novembre dello stesso anno in Germania e Austria migliaia di negozi e di case private, sinagoghe e cimiteri ebraici vennero distrutti o incendiati in quella che passò alla storia come la “Kristallnacht”, la notte dei cristalli.
Norbert Zwerdling, membro del Consiglio direttivo della Comunità ebraica meranese, non ci mise molto a comprendere che era il momento di lasciare Merano, l’Italia, l’Europa. Nel marzo del 1939 decise, quindi, di imbarcarsi per Cuba con tutta la famiglia. Da quel momento, fino allo sbarco a New York, le vicende della famiglia Zwerdling si fecero però nebulose.
Gli autori di “Quando la patria uccide” riportano la testimonianza di Antony Zwerdling, figlio di Alex e nipote di Norbert, che riferisce che suo padre e i suoi nonni raggiunsero Cuba nel maggio del 1939 a bordo del transatlantico “St. Louis” in partenza da Amburgo. Nave che finì al centro di una delle vicende più tragiche riguardante la persecuzione degli ebrei prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Sulla “St. Louis” si imbarcarono, infatti, oltre novecento profughi ebrei, in gran parte tedeschi, che speravano di raggiungere Cuba e quindi gli Stati Uniti. Il governo cubano, però, rifiutò il permesso di sbarcare e il comandante della nave, il capitano Gustav Schröder, tedesco e anti-nazista, chiese perciò di poter far scendere i passeggeri in Florida. Il permesso venne però negato anche dal governo statunitense, fedele alla linea di forti limitazioni all’immigrazione. La St. Louis fu quindi costretta a rientrare in Europa, a settimane dalla partenza da Amburgo. Sulla vicenda si era scatenato un tragico caso “diplomatico”, che terminò con l’accoglienza di 288 profughi in Gran Bretagna, mentre gli altri sbarcarono ad Anversa e si distribuirono tra Francia, Belgio e Olanda.
Immagine tratta da “Quando la patria uccide – Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige” (Raetia 2017)
Come noto, nei mesi successivi questi ultimi tre paesi vennero invasi dalle truppe tedesche e così 284 passeggeri della St.Louis finirono per essere arrestati e poi deportati nei campi di sterminio nazisti. Sulla vicenda è stato girato e sono stati pubblicati molti libri. La famiglia Zwerdling invece riuscì in qualche modo a sbarcare a Cuba. Il 20 novembre del 1940 Norbert, Fejge e Alexander ottennero il visto per gli Stati Uniti e furono in grado di lasciare l’isola. Pochi mesi dopo, a quasi due anni dalla fuga da Merano, si imbarcarono finalmente sulla nave che li avrebbe portati negli Stati Uniti.
Il piccolo Alexander Zwerdling aveva solo otto anni quando, il 2 febbraio 1941, vide per la prima volta la Statua della Libertà dal ponte del piroscafo “Mexico”, che da Cuba lo stava portando a New York. Le poche note di registrazione delle autorità portuali statunitensi lo descrissero come figlio di Norbert e Fejge Zwerdling, di razza ebraica, ma segnalarono anche che sapeva scrivere e che parlava due lingue: lo spagnolo e il tedesco. Niente, ma proprio niente, poteva far pensare che vent’anni dopo Alexander Zwerdling avrebbe incominciato la sua brillante carriera da docente di “Letteratura inglese moderna” che lo avrebbe portato a insegnare all’università californiana di Berkeley. Quel freddo giorno di febbraio al porto di New York non lo poteva immaginare davvero nessuno. Era solo uno dei tanti profughi sballottati tra un porto e un altro.
Dopo lo sbarco a Ellis Island, la famiglia si stabilì nella “Grande Mela” e Alexander poté così proseguire gli studi, si laureò in lingua inglese alla Cornell University e ottenne il dottorato a Princeton. Un curriculum di studi che gli permise di iniziare rapidamente a insegnare e a pubblicare libri. I due più importanti sono “Orwell and the Left” (1974), “Improvised Europeans, American Literary Expatriates, and the Siege of London” (1999).
Il suo ultimo libro “The Rise of the Memoir” è uscito a dicembre 2016, edito da Oxford University Press. Lui, invece, se ne è andato nel 2017, dopo una lunga malattia. Aveva 84 anni e il figlio Antony, un cantante d’opera, lo ha ricordato con una lettera scritta al quotidiano “The Daily Californian”: “Mio padre – ha scritto – si è davvero preso cura di studenti, colleghi, scrittori, amici, e parenti, aveva un modo unico e speciale di entrare nel loro mondo interiore”. Il suo collega Anthony Cascardi, preside della facoltà di Arte a Berkeley, lo ha ricordato come: “Uno straordinario esempio del grande contributo che gli immigrati hanno dato all’Università di Berkeley”.
Massimiliano Boschi
Immagine di apertura da “Quando la patria uccide – Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige” (Raetia 2017)